Una task force di psichiatri per curare i reduci di Nassirya

Una unità operativa della Asl 2 segue alcuni militari ancora sotto choc dopo quel maledetto 12 novembre 2004

da Genova

Ce l’hanno sempre negli occhi quelle immagini. Scene, che dal quel maledetto 12 novembre del 2004, non li fanno più dormire, lavorare, amare i propri cari. Non li fanno più essere uomini normali. Da una parte non scacciano l’immagine dei corpi bruciati dei colleghi, l’odore acre delle ferite e della morte, il rumore della deflagrazione di un camion imbottito di tritolo. Dall’altra si sentono nello stomaco le scene nostrane di gruppi di esaltati con la faccia ben nascosta dietro una sciarpa che gridano «dieci, cento, mille Nassirya». Vergognosi brandelli di cronache italiane.
Alcuni dei carabinieri reduci di Nassirya, a tre anni e mezzo dal terribile attacco terroristico che ha colpito la base italiana in Irak, non riescono a riprendere a vivere. Non sono morti, ma è come se lo fossero. Non sono loro i martiri, ma lo sembrano. Anche se le ferite del corpo, gravissime, sono state guarite, quelle dentro la testa non si rimarginano. Molti sono ragazzi liguri, al massimo quarantenni. In quattro sono seguiti da psichiatri e psicologi della Asl 2 di Savona, che è diventata un punto di riferimento, forse uno dei pochi, per questi uomini, che partiti per una missione di pacificazione, sono tornati come tornavano i reduci del Vietnam. A metà. «Seguiamo anche un familiare di una delle vittime - spiega il dottor Daniele Moretti, responsabile dell’Unità operativa del centro di salute mentale che segue il progetto -. Abbiamo dovuto fronteggiare crisi di ansia, rabbia, depressione, senso di abbandono da parte dello Stato, momenti interminabili in cui questi pazienti rivivono come al rallentatore tutte le fasi dell’attentato». Uno di loro entra e esce dalla clinica psichiatrica, per periodi più o meno lunghi di cure. C’è chi non riesce a darsi pace, chi soffre di sensi di colpa verso i familiari che subiscono il dolore di riflesso. Pochi dormono più di qualche ora di fila, nessuno ha rimosso dall’anima le immagini strazianti degli amici raccolti a pezzi, la paura di morire, di non rivedere più i propri bambini, di non tornare a casa.
«Qualcuno sta meglio - spiegano i sanitari -, altri fanno più fatica a riprendersi. Molti hanno mogli e figli che con grande sforzo stanno loro vicini, non li hanno mai abbandonati».
A causa dei loro gravi traumi psichici questi uomini, congedati dall’Arma, raccontano ai medici che non riescono a trovare più lavoro, e alla tragedia si aggiunge il dramma. Si sono avvicinati alle cure con forza e disperazione, ma adesso il percorso potrebbe portare frutti. «Noi li seguiamo con colloqui psicoterapeutici e interventi mirati con terapie psicofarmacologiche - spiega il dottor Moretti -, ma in alcuni casi è stato necessario il ricovero presso strutture ospedaliere». Gli specialisti savonesi spiegano di essersi trovati il «caso Nassirya» tra capo e collo, in una struttura operativa creata sì per fronteggiare le vittime di gravi emergenze intese come gravi catastrofi naturali o di attentati terroristici, ma certo non credevano che sarebbero stati così presto chiamati in causa.
Ciò che fa più male a questi ex carabinieri è l’atteggiamento sociale che li ha circondati e li avvolge da quel giorno, quasi come se essere inviati in divisa in missioni di pace sia stata una colpa. E una colpa essere sopravvissuti.


Ma qualcuno si sente anche preso in giro dall’Italia che, in fondo, ha già dimenticato, archiviando i morti con qualche corona di alloro e le liti «istituzionali» per intitolare una strada. Per i colleghi martiri qualcuno mette un fiore. A loro, resuscitati dall’inferno, nemmeno una parola.

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