Inglese, nato nel 1956, Philip Kerr è uno dei giallisti più interessanti delle ultime generazioni, paragonato dalla critica dOltremanica e americana a Michael Crichton: un autore capace di spaziare dai thriller futuristici come Gabbia d'acciaio agli intrighi seicenteschi di Dark Matter, e di coniugare una cultura enciclopedica a un talento innato per la trama e i dialoghi. Chi avesse avuto la fortuna di leggere i tre libri della cosiddetta «Trilogia berlinese» avrà amato, oltre al loro protagonista Bernie Gunther, labilità di Kerr nel ricostruire un ambiente, unepoca: nel caso della «Trilogia», Berlino dallavvento del nazismo alloccupazione russa.
La pace di Hitler (Passigli Editori, pagg. 476, euro 18.50, traduzione di Ennio Bertolucci) prende le mosse da un evento storico, la Conferenza delle potenze alleate a Teheran del 1943, per avventurarsi nei territori narrativamente felici del romanzo di fantapolitica, ma con un sottile brivido finale, e cioè il dubbio che la vicenda apparentemente incredibile che si è appena letta sia più reale di quella che ci è stata venduta come la versione «autentica» (o, meglio, ufficialmente approvata) dei fatti. Facendo leva su diversi punti oscuri e su alcuni episodi apparentemente incomprensibili della Conferenza, Kerr ci propone una versione alternativa dei fatti audace quanto credibile, e del tutto rivoluzionaria. Lipotesi di fondo di questo intrigante La pace di Hitler è che un quarto ospite misterioso fosse presente al tavolo dei Tre Grandi, e che grazie alla sua presenza la storia abbia rischiato di prendere una piega ben diversa da quella che ha poi preso nel mondo reale, portando a una pace concordata fra lAsse e gli Alleati nellautunno del 1943, evitando quindi milioni di morti ma mantenendo i nazisti al potere.
La bravura degli autori che si cimentano con variazioni su temi storici e su possibili «scenari alternativi» si misura sulla loro capacità di catturare fino allultima pagina lattenzione di un lettore che ovviamente sa già come sono andate le cose: che Churchill è sopravvissuto sino alla fine della guerra, ad esempio, e che i nazisti non hanno mai bombardato New York con unatomica. Eppure, malgrado il finale sia già noto, la presa di questi racconti, quando sono ben scritti, è assoluta. Sarebbe un delitto rivelare al lettore chi appare, a un certo punto, allo stesso tavolo di Churchill, Roosevelt e Stalin. Vorrebbe dire negargli una sorpresa emozionante: incredibile e al tempo stesso credibilissima. Con questo romanzo, Kerr si iscrive a pieno diritto in una lista che conta grandi thriller come La notte dellaquila di Jack Higgins, La cruna dellago e Il Codice Rebecca di Ken Follett, Fatherland di Robert Harris.
Fantapolitica? Leggendo il romanzo di Kerr ci si convince, alla fine, del contrario. Si ha limpressione di aver scoperto, al di là delle versioni ufficiali e ormai sedimentate della storia, un lato sepolto della verità. Di aver letto, insomma, come a volte accade in questi tempi in cui gli archivi, soprattutto dellex Unione Sovietica, consentono scoperte incredibili, un saggio storico-politico, sotto forma di thriller perfetto. Merito anche di un protagonista allaltezza degli altri eroi di Kerr: il giovane professore di filosofia Willard Mayer, arruolato dal controspionaggio americano per la sua conoscenza del tedesco e della Germania, che accompagna in qualità di consigliere speciale il presidente Roosevelt prima al Cairo e poi alla Conferenza di Teheran.
Philip Kerr si muove magistralmente allinterno dei grandi fatti come della psicologia dei personaggi. Il suo racconto illumina, portandoli drammaticamente allattenzione del lettore, episodi terribili come il massacro di Katyn, i campi di concentramento nazisti e sovietici, ma soprattutto il cinismo eretto a sistema di potere.
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