TIPI ITALIANI

Partenza il 15 maggio con la Peugeot 203, la stessa vettura che portò alla vittoria nel 1953. «La corsa più bella del mondo», la definì Enzo Ferrari, che aveva lavorato per suo padre. «Poi il Drake arruolò me»

TIPI ITALIANI

La prima volta che Virginio Gino Carlo Achille Maria Lugli Munaron - per gli amici e per le cronache solo Gino Munaron - finì fuori strada, non era ancora nato. Accadde il 19 gennaio 1928. «Mio padre Ramiro, distributore dell’Alfa Romeo per il Piemonte e l’Emilia Romagna, era stato a festeggiare il suo 43° compleanno a Montecarlo. Tornava a Torino sulla Lancia Lambda guidata da mia madre Adly, alsaziana. Sa, mamma andava d’abitudine come una revolverata... Io ero nella sua pancia. Colle di Tenda, Borgo San Dalmazzo, Cuneo. Su un rettilineo li sorpassa Vigin Gismondi, il collaudatore di Vincenzo Lancia. Li guarda con aria di sfida, si conoscevano bene. Le pare che i miei genitori potevano mandar giù l’affronto? Fu guerra. E su una semicurva, il ghiaccio...».
Il 2 aprile la signora scodellò a Torino, bello integro, il pilota di lungo corso che 80 anni dopo non ha ancora smesso di fare l’unica cosa per cui crede d’essere venuto al mondo: correre. Si è cimentato con tutte le case automobilistiche, dalla Osca dei fratelli Maserati alla Ferrari, passando per Nardi, Siata, Porsche, Lancia, Peugeot, Alfa Romeo, Fiat. Il prossimo 15 maggio Gino Munaron aggiungerà al suo palmarès un primato che la storia non concederà a nessun altro essere umano: prenderà parte a quella Mille miglia che nacque un anno prima di lui, nel 1927, «la corsa più bella del mondo» come la definiva Enzo Ferrari, il quale prima di diventare l’Ingegnere era stato sul libro paga del padre di Munaron. E lo farà con la stessa auto, una Peugeot 203, che 55 anni fa, nel 1953, portò alla vittoria nella categoria turismo 1300. Finora ne ha disputate 19, di Mille miglia, record imbattuto e imbattibile, «anche se quelle vere si contano sulle dita di una mano, queste sono barzellette». Quando fu partorito, il padre era disperso nelle Marche perché la sua Lambda s’era rotta proprio durante la seconda Mille miglia. Prima del padre s’era fatto valere il nonno Giovanni Battista, che nel 1898, con una De Dion Buton, cercò di superare in velocità i cavalli all’ippodromo di Padova, città d’origine dei Munaron: «A quell’epoca percorrere qualche centinaio di metri era già un gran risultato».
Il nonno volante, laureatosi sul circuito di Le Mans alla bellezza di 307 chilometri orari, abita a Valenza (Alessandria). Nello studio ha messo in cornice un assegno circolare di 7.650 lire della Banca provinciale lombarda, il rimborso di una delle tante multe per eccesso di velocità. «Quante ne ho prese? Di sicuro almeno un centinaio. Molte le ho contestate e mi hanno restituito i soldi. Molte le ho buttate via. Nemmeno una per divieto di sosta o altro». Le radiografie confermano: 19 ossa rotte in quattro incidenti («mai su strada, sempre in corsa») da cui è uscito vivo per miracolo. Il più tremendo gli capitò mezzo secolo fa in Svezia: «Bacino spezzato in cinque parti, tre incrinature della colonna vertebrale, un rene schiacciato. Appena giunto in ospedale, quattro vichinghe mi afferrarono per le gambe. Mi ridussero le fratture così, sul banco dei raggi. Per 106 giorni inchiodato su un asse. Fortuna che l’infermiera Gunilla ogni tanto trasportava il letto a rotelle in soggiorno, dove suonava per me O sole mio al pianoforte. Venne a trovarmi la nazionale francese che partecipava alla Coppa Rimet del ’58. Quando i giocatori seppero che Gunilla mi preparava i maccheroni con sopra la composta d’arance, cominciarono a portarmi ogni giorno camembert, gallette salate e bottiglie di Bordeaux. Un pomeriggio non mi trovarono: ero stato messo in una bara senza coperchio e trasferito a Milano con l’aereo. Conservo ancora la cartolina che la squadra mondiale mi spedì in Italia, con le firme di tutti i 22: Fontaine, Piantoni, Kopa, Jonquet...».
Amico fraterno di Tazio Nuvolari, Achille Varzi e Juan Manuel Fangio, tra i fondatori della Bmw Italia, Munaron mise la testa a posto soltanto dopo aver incontrato la sua seconda moglie, Erminia Moneta, pronipote di Ernesto Teodoro Moneta, vincitore nel 1907 del primo premio Nobel (per la pace) assegnato a un italiano. È morta due anni e mezzo fa. «Minnie mi ha fatto cambiare vita. Prima ero disordinato. Oggi che lei non c’è più sono disorientato».
A che età cominciò a guidare?
«A 6 anni. Andavo al parco del Valentino con mio padre. Mi metteva sulle ginocchia e mi dava in mano il volante di una Fiat 509 Torpedo. Il mio padrino di battesimo fu il conte Didi Trossi, gran corridore dell’Alfa Romeo, nonostante soffrisse di chinetosi. La domenica alle 11 papà mi portava al bar Barovero in piazza Carlo Felice, dove si radunavano gli appassionati di auto, assai rari a quel tempo, capitanati da Battista Farina, detto Pinin, perché era il più piccolo di tutti ma anche il più grande».
Il suo destino era segnato.
«A dire il vero io a 12 anni avevo già un posto all’Accademia navale di Livorno. Purtroppo morì mia madre. Cancro allo stomaco. Le facemmo il funerale nel giorno del suo compleanno. Mio padre, affranto, mi disse: “Siamo rimasti soli, non lasciarmi anche tu, resta a Torino”. Obbedii. Per casa girava Tazio Nuvolari. Innamorarsi delle corse fu inevitabile».
Che ricordi ha di Nivola?
«Vacanza ad Asiago, avrò avuto 8-9 anni. Arriva con un’Alfa Romeo 2900 touring: “Monta su, che proviamo una salita”. A metà arrampicata mi viene spontaneo dirgli: ma è tutto qui, Nuvolari? “Ah, è così?”, fa lui. “Tieniti forte”. Siamo giunti in cima in un modo che non dimenticherò mai più. Lui non guidava l’auto: la adoperava. Nelle discese ripide, per frenare sterzava bruscamente e percorreva gli ultimi 100 metri di traverso. Aveva una forza pazzesca nelle braccia. Fu sepolto con accanto il suo volante preferito e addosso il maglione giallo e i pantaloni blu che per scaramanzia metteva sempre durante le gare».
«Correrai ancor più veloce per le vie del cielo» è scritto sull’ingresso della tomba di famiglia dei Nuvolari nel cimitero di Mantova. Ha capito perché agli uomini piace tanto correre in auto?
«È una sfida per sentirsi vivi. Dopo il via, io non ho mai saputo se sarei arrivato in fondo e non ci ho mai neppure pensato. Allora indossavamo solo un caschetto di tela e una maglietta con le maniche corte, perché la lana è ignifuga: se prendevi fuoco, dovevi sfilartela. Fine delle precauzioni. Al traguardo ti aspettavano due soddisfazioni: essere ancora intero e ritrovarti, qualche volta, in classifica».
La sua prima corsa?
«La Aosta-San Bernardo nel 1949. L’ultimo tratto era privo di asfalto. Con Paolo Cordero di Montezemolo, cugino del padre di Luca, assemblammo un’auto degna di Frankenstein: motore V8 della Ford, un residuato bellico dell’esercito americano di liberazione; cambio della Lancia Astura; ponte di una Fiat 2800. Nel 1952 feci il Giro di Sicilia e la Mille miglia con una Fiat V8 preparata dalla Siata. Fu costruita di contrabbando, all’insaputa dell’amministratore delegato Vittorio Valletta e di tutto lo stato maggiore della casa torinese».
E poi?
«Nel 1954 fui mandato da Enzo Ferrari alla Temporada in Argentina. Trentatrè ore di aereo per arrivarci, con soste a Milano, Parigi, Lisbona, Dakar, Recife, Rio de Janeiro, Montevideo, Buenos Aires. L’ingaggio di 900.000 lire dovevo dividerlo a metà con la scuderia modenese, perché il Drake ti riconosceva solo il trattamento di mezzadria, niente stipendio. Tornai a correre in Argentina altre tre volte. Ero diventato amico intimo di Fangio. Nonostante avessi la camera d’albergo pagata, andavo a dormire a casa sua. Viveva con Beba, una donna di una gelosia asfissiante. Lui le diceva: “Cara, vado al ristorante con Gino”, e invece ne approfittava per raggiungere le sue amanti, una più bella dell’altra. Ero diventato il suo alibi».
Donne e motori, con quel che segue.
«Nel mio piccolo ho conosciuto le gemelle Kessler al Lido di Parigi. Ero con Alfonso De Portago, il pilota spagnolo che poi morì alla Mille miglia del 1957 per lo scoppio di uno pneumatico della sua Ferrari. E lì ho imparato due cose sulle Kessler: che non sono tedesche, bensì armene anche se poi naturalizzate in Germania, e che sono nate a dieci mesi di distanza l’una dall’altra... Però avevano 18 anni ed erano carinissime».
Lei ha corso anche in Formula 1, se non ricordo male.
«Sì, a Silverstone, Reims, Brandshatch, Monza. Il massimo della gloria fu il terzo posto al Gran premio di Buenos Aires, che vale come il primo posto di oggi».
Perché?
«Allora il pilota faceva il 65% del risultato. Oggi se arriva al 20-25% è già tanto. Le nostre gomme erano larghe 18 centimetri. Oggi sono 60. Uno come Michael Schumacher è nato per queste auto. Quando vado a Maranello, dico sempre ai miei amici della Ferrari: ma la coppa ai meccanici quand’è che la date? Mica per altro: gli unici sorpassi si vedevano ai box. Oggi va un po’ meglio».
In che senso?
«Hanno tolto il controllo di trazione e quello della partenza. Prima il pilota era un trasportato. Si sedeva al posto di guida, schiacciava fino a metà corsa l’acceleratore, anche se per un prodigio della tecnica il motore continuava a girare al minimo, e aspettava. Un contatto elettronico collegato al semaforo dava gas al bolide quando si spegneva la luce rossa del via. E questa me la chiamano partenza?».
Vuoi mettere la Mille miglia...
«Ma no, guardi, anche lì ormai è tutta scena. Di competitivo non c’è nulla. È una gara di regolarità. Devi passare a zero sui pressostati nel tal posto, chessò, alle ore 15 e 20 minuti e 37 secondi. Ci sono concorrenti muniti di computer, navigatore satellitare, auricolari e tutte le gabole di questo mondo. Spaccano il capello negli ultimi 50 metri, quando è proibito fermarsi, grazie a un gong che scandisce i secondi mancanti: deng, deng, deng. Ma che roba è? L’auto io la vivo. Della regolarità non mi frega un cazzo. Passare a zero è come mettere sotto le lucertole. Lei c’è mai riuscito?».
Chi sarà il suo navigatore?
«Del Zoppo. Il nome non lo so. Ancora non l’ho incontrato. Al via saremo in 700 driver e 350 auto, non è che posso conoscere tutti. È un ottimo rallista. Andremo d’accordo».
Ma non sono faticosi, a 80 anni suonati, 1.300 e rotti chilometri su e giù per l’Appennino, da Brescia fino a Roma, e ritorno?
«Solo la prima tappa, Brescia-Ferrara. Si parte tardi e non arrivi mai prima di mezzanotte. Parcheggia, trova l’albergo, sistemati, alla fine più di tre ore non dormi, perché alle 7 si riparte».
E quanto costa partecipare?
«Sa che non lo so? Dev’essere una roba sui 5.500 euro. Allucinante. Io non ho mai pagato. Porto già la mia persona».
Quanti punti le rimangono sulla patente?
«Come sarebbe a dire? Me ne rimangono 24, cioè ne ho persino guadagnati. Non sono mica così matto da correre dove non si può! Bisogna scegliere le strade e l’ora giusta per farla un po’ allegra, cosa crede?».
Ma il limite di velocità ideale in autostrada quale dovrebbe essere, secondo lei?
«In Germania non esiste alcun limite, a parte quello suggerito dalla prudenza di chi guida, e il tasso di mortalità per incidenti è nettamente inferiore rispetto all’Italia. La verità è che da noi non esiste una vera scuola guida. Ti insegnano a guidare sulle strade di città. Mai di notte, mai con la pioggia, mai sul ghiaccio. Poi il sabato sera questi diciottenni, in cimbali per l’alcol o per la droga, si ritrovano a cavallo di mezzi che non conoscono e vanno a schiantarsi».
Che cosa pensa degli autovelox, dei laser, dei tutor e di tutte le altre diavolerie contro chi corre?
«Non devo essere io a spiegarle la disonestà con cui sono stati gestiti in molti Comuni i T-red, i cosiddetti semafori intelligenti. Siamo un Paese dove per denaro si fa qualsiasi cosa, qualsiasi!».
«Più velocità più pericolo». Slogan per le campagne del ministero dei Lavori pubblici o verità?
«Più velocità dove si può, questo bisognerebbe dire. Negli Usa il limite è di 65 miglia, 110 chilometri orari, in quasi tutti gli Stati. Però, parlo per esperienza personale, lì tu riesci a tenere delle medie altissime anche in città perché tutti circolano alla stessa velocità. Qui trovi sempre un somaro davanti».
Quante auto ha avuto fino a oggi?
«Solo contando quelle di proprietà, più di 70. La Triumph TR3 nera del 1957 che guidava Marcello Mastroianni nella Dolce vita di Federico Fellini era mia. Una macchinaccia. Le auto inglesi erano delle troiate pazzesche».
E adesso?
«Ho una Bmw 635i del 1981. L’ho comprata da un imprenditore che la teneva ferma da 14 anni in un garage di Milano. Aveva appena 11.000 chilometri. L’ho solo lavata e ho cambiato le gomme. Perfetta, come se fosse uscita ieri dalla fabbrica».
A quale auto è rimasto più affezionato?
«All’Aurelia B24 prima serie America. Era veramente una spider, col parabrezza avvolgente, senza cristalli laterali. Aveva il motore Carrera. Ci feci il miglior tempo fra Torino e Nizza: 2 ore e 35. Ci ho riprovato anche con la Ferrari 3000: mai eguagliato. Ne ho avute tre o quattro, di “rosse”. Però l’auto in assoluto più bella che ho guidato in vita mia è la Audi R8. Ha un’accelerazione e una tenuta di strada che non puoi capire finché la vedi da fuori. Ma quando ci sei seduto dentro, come ho fatto io sulla costa californiana del Pacifico per due giorni... Indimenticabile».
Comprerebbe un’auto cinese?
«Gnanc par nient. Ma per carità! Ho avuto contatti con quei signori quand’ero amministratore delegato della Trw, colosso americano della componentistica per auto. Andai in missione a Pechino con Umberto Agnelli. I cinesi avevano bisogno di trattori. Dissi loro: “I brevetti sono nostri, ma se fate l’accordo con la Fiat vi diamo la roba”. Sa quale fu la risposta? “Noi non riconosciamo i brevetti”.

Benissimo, ho replicato io, allora vi pigliate questa corda e la adoperate come scatola guida, un tiro a destra, un tiro a sinistra, uno a destra, uno a sinistra, avete presenti le redini del cavallo? Ho girato i tacchi e sono tornato in Italia. Quella è gente con cui è meglio non avere a che fare».
(410. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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