Usa-Cina, sorrisi e schiacciate: la diplomazia del basket

«Niente politica, è solo sport»: la sfida vinta dagli americani vissuta senza rivalità apparente. Ma restano certi riflessi automatici

Usa-Cina, sorrisi e schiacciate: la diplomazia del basket

Pechino - «Ooohh..., lei mi lusinga, gentile signore. Mi prende per una ragazzina? Certo che me la ricordo, la diplomazia del ping pong. Io sono del '53. E quello dev'essere stato il 1970. O era il 1971?... Lo so, non dovrei dire la mia età. Negli Stati Uniti, quando sono andata a fare un corso da manager, mi hanno spiegato che le donne, superata la trentina, non dicono mai quanti anni hanno. Non ho capito perché. Sono strani, gli americani. Ma stiamo andando fuori tema. Le stavo dicendo di Henry Kissinger...».

Becky Wang, proprietaria del bar ritagliato in un angolo della hall del «Poly Plaza», riannoda i fili della memoria civettando con l'ospite italiano. La visita segreta del segretario di Stato Usa, il viaggio di Nixon nel '72... Ogni tanto ride, piegando deliziosamente il capino da un lato e coprendosi la bocca col dorso della mano come faceva Nancy Kwan ne Il mondo di Suzie Wong, indimenticabile film con William Holden. Il televisore, acceso dal mattino fino a notte inoltrata, è sintonizzato su CCTV1, il TG1 cinese. Olimpiadi a gogò, intervallate da avare notizie. «Beh, sì, oggi è una grande giornata», ammette madame Wang guardando perplessa Kelcy Bryant e Ariel Rittenhouse, le americane del tuffo sincro dai 3 metri. Massicce come massaie del Minnesota, le statunitensi torneranno alla fine nella fattoria di Nonna Papera, dietro la scia di Minxia Wu e Jinjing Guo, medaglie d'oro. «E vedrà stasera, col basket, che cosa gli farà agli americani il nostro Yao Ming», gongola madame senza sospettare il tremendo mal di denti che attenda il Paese di Mezzo.

Vanno in scena i primi scontri diretti fra Stati Uniti e Cina (oggi tocca al basket femminile); e la sensazione - prima che gli Usa di Kobe Bryant facciano polpette della Cina di Yao Ming - è quella di essere sul set di Dalla Cina con furore capolavoro assoluto con Bruce Lee: che poi, a ben vedere, era nato a San Francisco. «Ma non cerchi manifestazioni di rivalità politica. Non ne troverà», mi avevano avvertito a mezzogiorno Arthur Lien, 46 anni, ingegnere di Taiwan, e Carol Chang, l'amica con cui è venuto in vacanza a Pechino per le Olimpiadi. «Quel tempo è tramontato definitivamente. Queste sono competizioni sportive, ed è chiaro che ciascuno fa il tifo per la sua squadra, per il suo Paese. Oggi noi cinesi di Taiwan non abbiamo alcuno spirito di revanche nei confronti dei nostri fratelli separati del continente. E viceversa. E lo stesso vale per i cinesi di Pechino o di Shanghai con gli americani. Ci unisce la musica, la tecnologia, il gusto per il futuro, l'economia, il desiderio di pace e di benessere. E anche il basket, perché no?»

Lo stesso mi avrebbe detto di lì a poco Ren Chun Wang, 21 anni, studente di letteratura cinese incontrato all'«Aperitivo». È uno dei bar alla moda nel quartiere di Sanlitun, la Brera di Pechino, dove per un discreto ammontare di remimbi un gruppo di romani che seguivano allocchiti una bandierina hanno avuto un meritato piatto di «fusilli tomato arugola».

«Allau… Allau!!!» berciano in coro le camerierine del «Gui Jie Ma Xiao», ristorantino al terzo piano dei grandi magazzini «Ya Xiu» contendendo alle colleghe delle attigue mense una famigliola di Tallahassee, Florida. «Hello», rispondono gli americani, avendo intuito che quello intendevano dire le ragazze dietro il bancone. E che sorrisi, e che inchini, e che complimenti, quando gli Hendricks (lui insegnante di matematica, lei di ginnastica) decidono di portare qui la loro cartata di remimbi, meglio noti come yuan.

«Giochi felici, nessun cattivo feeling con gli Usa», mi avevano giurato nel loro impervio inglese Xiao Zonghu, che vende scarpe a Shandong e Shu Xiang Te, fresco di laurea in ingegneria, tenendosi la pancia dal ridere quando George Bush aveva rischiato di ruzzolare come in una comica finale in piscina.

Sicché alla fine mi tocca dar ragione a madame Becky Wang. «La distensione... la normalizzazione... Certo che me la ricordo, quell'epoca. Ci dicevano a scuola che gli Stati Uniti erano imperialisti, che erano nemici del popolo. Poi ci fu la rottura con l'Unione Sovietica, il Vietnam, la svolta con Deng Xiao Ping, e infine la Cina della riscossa, quella che oggi è sotto gli occhi di tutti». Basta non nominare il presidente Hu Jintao. Quando accade, il tono di voce dell'ex balilla che da ragazza sfilava a pugno chiuso, e ora ha fatto i soldi, si spegne in un inquieto sussurro. Certi riflessi condizionati, mi dico, non muoiono mai.

A mezzanotte, quando gli Usa hanno finito di schiantare Yao Ming e compagni, su Pechino si stende una cappa di avvilito ma molto decubertiano silenzio. Guardo la partita a Sanlitun, davanti al maxischermo della Adidas. Le volte che un americano sbaglia, all'inizio, certi ragazzotti mimano Bush che inciampa, sganasciandosi dal ridere ma finendo poi ad applaudire deamicisianamente - così come tutto il palazzetto - quando il presidente americano saluta e se ne va.

Ma quando faccio loro osservare - così, senza cattiveria - che il ciuffo corvino del presidente cinese Hu Jintao somiglia a quello di Little Tony, un cantante rock italiano, fanno come madame Wang stamattina. Torcono la bocca, si guardano intorno preoccupati, nel caso qualcuno li avesse sentiti chiacchierare col tanghero italiano, e improvvisamente si ricordano che avevano un impegno. Sono piccole sfumature, certo...

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