La casta dei cieli batte un colpo, forse l'ultimo, quello che poteva mandare fuori pista Alitalia, il carrozzone che ogni santo giorno perde un milione. Che in un anno ne spreca 45 per trasportare e alloggiare a Milano i piloti romani che fanno base a Linate o Malpensa, più altri 7 per prelevarli o riportarli a casa in pulmino. Che manda gli equipaggi a dormire in alberghi con piscina, sauna, bagno turco, idromassaggio. Che coccola i sindacalisti immolando 13,5 milioni in permessi e distacchi. Che nel 2005 bruciò 520mila euro per modificare di un niente il logo della compagnia. Che manteneva un ufficio con 15 persone a Città del Messico mentre i collegamenti diretti erano soppressi da anni. Che stipendiava 20 persone per selezionare musiche e film per i voli: in questi giorni consigliabile «Laereo più pazzo del mondo».
Piloti e assistenti di volo tirano la corda. Avranno paura di perdere il record del minor numero di ore volate, 595 annue contro le 650 dei vicini di Air France e le 700 di Lufthansa. Oppure di farsi sfuggire l'indennità lettino (da 730 a 1200 euro al mese) per le trasvolate su apparecchi senza brande ma intascata anche da chi riposa comodo. O quella di volo che si somma a quella di terra. O ancora i 42 giorni di ferie dei comandanti, che lievitano a 49 per hostess e steward. O magari i giorni di riposo in trasferta, lunghi 33 ore anziché 24. Anche l'autunno caldo di Alitalia ha una durata abnorme, venti mesi, una lenta agonia. Era il 1° dicembre 2006 quando il governo Prodi decise di cedere il controllo. La compagnia aveva già avviato un certo dimagrimento: a metà degli anni Novanta i dipendenti erano scesi a 18.850, ma nel 2001 avevano superato i 23mila. Sfoggiando la stessa abilità di quando aveva svenduto l'Iri, Prodi colleziona una catena di fallimenti. In cabina sistema l'avvocato Berardino Libonati, membro di prestigiosi consigli di amministrazione tra cui quello di Nomisma, che lancia una gara per l'acquisto. Rispondono cinque cordate: Unicredit, Intesa-SanPaolo-AirOne, il fondo salva-imprese di Carlo De Benedetti più due fondi americani. La gara fallisce, Libonati cede il posto a Maurizio Prato, altro prodiano doc, ex manager Iri, il quale comincia col ridimensionare Malpensa e ottiene dal Tesoro un mandato a trattare direttamente con un partner straniero.
Il 21 dicembre 2007 il cda Alitalia sceglie Air France-Klm per la contrattazione esclusiva. I francesi impiegano tre mesi per presentare l'offerta, e a quel punto scoppia la bagarre: i sindacati alzano le barricate contro i 2.100 esuberi annunciati, il titolo crolla in Borsa, il governo in campagna elettorale non offre sponde e la compagnia d'Oltralpe si ritira a due settimane dal voto.
Intanto sui voli targati Az continua la sagra degli sprechi. Una bottiglietta di Coca-Cola viene pagata fino a 40 euro: troppo facile acquistarla direttamente in fabbrica, Alitalia preferisce coinvolgere appalti, grossisti, container. Le bibite per i voli dagli Stati Uniti vengono comprate in Italia, imbarcate sulle navi fino a Boston e lì smistate negli scali. I cestini da viaggio panino-insalata-minerale, che in qualsiasi autogrill non raggiungono i 10 euro, all'Alitalia ne costano 20. I carrelli con le bevande delle tratte interne (acqua, succhi, salatini o biscottini) valgono come un magnum di Dom Perignon: 500 euro. E i piloti che atterrano a Venezia si lamentano perché non sono più attesi da un motoscafo diretto a un cinque stelle del Lido, ma gli tocca andare a Treviso.
Il resto è storia degli ultimi mesi: il prestito-ponte da 300 milioni di euro, il premier Berlusconi che promuove una cordata italiana, la nascita di Cai con i grandi nomi dell'imprenditoria, il commissariamento, l'inizio della trattativa sul piano Fenice. Più che una negoziazione, è una manfrina che i sindacati trascinano per settimane (con la Cgil sull'altalena tra firmare o non firmare) finché assistenti e piloti, sempre loro, sentenziano che la proposta è «carta straccia».
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