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"Vi racconto la verità sulla famiglia Stasi"

Tanti anni passati assieme nei ricordi di un amico. Ettore Santoro assunse il padre di Alberto come custode, poi divennero soci: "Di loro posso dire solo bene"

"Vi racconto la verità sulla famiglia Stasi"

Milano - «Voglio bene a Nicola e a suo figlio Alberto». Anche se il loro sodalizio finì male, esattamente nove anni fa. E ognuno andò per la sua strada: Ettore Santoro sui taxi, Nicola Stasi in «fuga» a Garlasco in cerca di fortuna, sempre nel ramo autoricambi. Oggi la sorte ha girato le spalle alla famiglia Stasi e forse Nicola, la moglie Elisabetta e il figlio Alberto si preparano a un’altra uscita di scena: Garlasco sta stretta, come allora l’appartamento di Liscate, troppo vicino ai guai e alle tragedie fra i soci che discutevano e a volte litigavano per i tappetini, i soldi, i turni di lavoro.

«Negli ultimi anni non ci siamo più sentiti, ma il nostro rapporto è andato avanti nel modo migliore per un lungo periodo. Tutto è cominciato fra l’86 o l’87. Io abitavo a Sesto San Giovanni e avevo un negozio di autoricambi a Treviglio. Venne a parlarmi Nicola, un vicino di casa: era un ragazzo sveglio, poi scoprii che la sua famiglia era originaria del mio paese, Ruvo di Puglia. Mi chiese se avessi bisogno di un commesso. Sì. Mi andava bene. Lo assunsi e funzionò benissimo».

Certo, da Sesto a Treviglio era un viaggio lungo, due volte al giorno su strade trafficatissime: «Nicola era ed è un gran lavoratore, uno che voleva sempre migliorare, oculato, solido, attento. Non come me: mi piaceva viaggiare, sono arrivato a 65 anni e non ho un soldo in banca. Lui voleva costruirsi una grande casa, in campagna, lontano dal chiasso». Quella villa che poi avrebbe realizzato a Garlasco: il castelletto quasi fortificato che tutti gli italiani hanno visto in tv.

«Mi propose di acquistare un negozio di accessori a Segrate, alle porte di Milano. Fu un’intuizione preziosa, perché si potevano fare i soldi. E così fu. Lanciai nell’impresa, con Stasi e un altro amico, mio figlio Luca. Dunque, tre soci, compreso Stasi, con i primi soldi raggranellati. Si comprò un appartamento a Liscate, non lontano, eravamo in confidenza, conobbi suo figlio Alberto, un bambino spensierato».

Santoro è stato padrino di Alberto, non una ma due volte, per la prima comunione e poi alla cresima: «Siamo andati a mangiare al ristorante, come è normale in questi casi». Il taxista sorride, mostrando la sua faccia appena stropicciata dall’età, la stessa passata la settimana scorsa sugli schermi di Telelombardia. Una storia anonima, per tanto tempo, ma poi, a volte, la realtà s’ingarbuglia: «I tre soci andavano a tre velocità diverse. Iniziarono le solite beghe». Be’, solite: i soldi, gli utili, il logorio di una vita frenetica.

Santoro glissa, tiene in disparte i dettagli. Una decina d’anni fa la situazione precipita: dopo un grave incidente stradale, Luca muore. Il terzetto si divide: uno tiene l’impresa a Segrate, lui compra la licenza per guidare i taxi e per allontanarsi da quel dolore insostenibile, Stasi emigra: «Perlustrò i paesi della Lombardia e scoprì che Garlasco non aveva negozi di autoricambi. Poi dev’essergli piaciuto il paese, la campagna, la pace».

Gli Stasi se ne vanno da Liscate, il borgo che Renzo si lascia alle spalle nel sedicesimo capitolo dei Promessi sposi, mentre fugge verso Venezia. Le loro peregrinazioni invece finiscono a Garlasco, dove ricominciano e fanno affari e tirano su la casa. Alberto, ora, è un ragazzo grande, fa l’università, è fidanzato con Chiara. In paese, dove la diffidenza è una virtù e una barriera sociale, qualcuno chiede perché quella famiglia se n’è andata da Liscate, come ha guadagnato quei soldi. È normale, è la stessa maledizione che accompagnerà Annamaria Franzoni a Cogne, lontano, troppo lontano per la mentalità comune, dall’Appennino bolognese e dal clan paterno.

«Il 1° agosto ero sul mio taxi a Malpensa quando all’improvviso ho visto Nicola che non incontravo da molti anni. Ci siamo abbracciati, siamo andati a bere. Lui era lì ad aspettare suo figlio e un suo amico, forse Marco Panzarasa, che tornavano da Londra. Quando i due sono arrivati, Nicola ha detto ad Alberto: "Te lo ricordi Ettore?". "Certo", ha risposto lui. Ci siamo salutati. Poi ognuno per la sua strada. Il resto, il resto, compreso il nome dell’amico, l’ho letto sui giornali. E se devo dire la mia, per me Alberto non è un assassino.

Io ho conosciuto un bravo ragazzo».

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