da Bodrum (Turchia)
Seduto al tavolino di un bar, Khaled guarda le barche ormeggiate al molo del porto di Bodrum. Davanti a lui, sedute nell'erba, decine di persone aspettano al sole. Aspettano che i trafficanti d'uomini come Khaled si avvicinino per proporre loro un passaggio per attraversare il Mar Egeo ed entrare illegalmente in Grecia. Dodici chilometri d'acqua a bordo di gommoni giocattolo, milleduecento euro a testa che entrano nelle tasche degli scafisti. Uomini, donne, vecchi, bambini: profughi. Fuggono da guerre e povertà, arrivano da Medio Oriente, Africa, Asia centrale anche se quasi tutti si spacciano per siriani, nella speranza di ottenere così lo status di rifugiato.
È per seguire il viaggio dei migranti che siamo arrivati in Turchia, il trampolino di lancio per entrare in Europa: da qui ne racconteremo l'epopea, seguendoli fino in Germania. Attraverso Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria e Austria: sette nazioni, sei confini e due continenti, per provare a descrivere la migrazione dall'interno.
Gli occhi chiusi dei turchi
Nascosti sul fondo di imbarcazioni precarie, i migranti partono da Bodrum a notte fonda, salpando da spiagge buie e poco frequentate.
Alle due del mattino andiamo ad assistere alle partenze. I profughi si nascondono nei campi a ridosso della strada: con un balzo attraversano l'asfalto e, reggendo il gommone sopra la testa, raggiungono la spiaggia. Nell'acqua fino alla cintola, issano a bordo donne e bambini, i gesti impacciati dai salvagenti. A remi, con le barche sovraccariche, il viaggio fino all'isola di Kos sarà un'odissea.
Dall'inizio dell'anno più di cinquecento migranti sono già morti in queste acque. Corriamo sulla spiaggia per filmare la scena, ma gli scafisti non ci degnano d'uno sguardo.
La polizia turca sospende i pattugliamenti all'una di notte, chiude entrambi gli occhi di fronte al mercato di carne umana: non sarà certo l'occhio della telecamera a disturbare questi uomini che non conoscono paura né vergogna. Sulla spiaggia, i trafficanti fumano con calma un'ultima sigaretta, mentre i barchini carichi di disperati si allontanano lenti verso la Grecia.
La finta solidarietà della Grecia
Una volta a Kos veniamo catapultati nel cuore pulsante dell'emergenza migratoria. Chi si ostina a negare che ci sia l'emergenza dovrebbe venire qui. A vedere le interminabili file di tende allineate sul lungomare, dove migliaia di persone aspettano per giorni, sotto il sole di agosto, il documento necessario a lasciare l'isola e proseguire per Atene. La Grecia solidale di Tsipras non garantisce loro né cibo né vestiti. L'acqua potabile è offerta da un'Ong olandese, ma nulla più. Nella piazza davanti al commissariato di polizia ci si avvicina un ragazzo camerunense alto forse due metri: è arrivato da Bodrum a nuoto, non ha nulla con sé e non mangia da tre giorni. Non possiede nemmeno i vestiti che indossa. Indica la folla di miserabili e domanda furibondo: «È questa l'Europa?». Per chi non ha nulla e succede a molti – l'unica opportunità è ingrossare le file dei trafficanti: molti, tra gli scafisti, sono ex profughi arruolati per questo commercio inumano. Anche tra i migranti, d'altronde esiste una gerarchia: gli africani, più poveri, sono in fondo alla scala, mentre i più facoltosi siriani hanno, in genere, qualche possibilità di cavarsela.
Incontriamo Abdul Fattah e Abdul Salam, ingegneri di Qamishli conosciuti a Bodrum. Loro hanno potuto affittare una stanza e acquistare un biglietto sulla nave per Atene. Abdul Salam però ha una brutta ferita a una gamba – frutto di un diverbio con i poliziotti turchi e a Kos non c'è un medico per curarlo. Occorre proseguire per Atene, il prima possibile.
Dalla Grecia alla Serbia
Ai migranti diretti in Germania, la Grecia consegna un foglio di via che impone di lasciare il Paese entro sei mesi, fatta salva la possibilità di presentare richiesta d'asilo.
Un documento analogo è rilasciato dalla Serbia, che però riduce il tempo di permanenza a solo tre giorni. La piccola Macedonia, nel mezzo, è anche più sbrigativa: carica i profughi su un treno e in tre ore li scarrozza da un confine all'altro, sbarazzandosene il prima possibile. I numeri in continua crescita della migrazione – ai primi di settembre dai principali valichi di frontiera passavano quasi diecimila persone al giorno – hanno fatto saltare il tappo e ridotto i controlli al minimo. Finché i migranti se ne vanno in Germania, greci e slavi si limitano ad osservare. Abdul Salam ci racconta che un treno delle ferrovie serbe ha portato i profughi direttamente al confine ungherese, senza fermarsi a Belgrado, dove pure era prevista una fermata obbligatoria.
Le agenzie di viaggio moltiplicano le corse di autobus che fanno la spola da un confine all'altro, sfilando ai profughi grosse quantità di valuta straniera. Percorriamo tutta la Serbia, dal confine macedone a quello ungherese, a bordo di uno di questi bus: per sessanta euro si viaggia a bordo di bus turistici con aria condizionata e wifi. L'atmosfera è rilassata, i volti distesi. Fino all'Ungheria, la marcia procede spedita.
L'Ungheria di Orbàn
Quando arriviamo alla frontiera serboungherese, alla fine della prima settimana di settembre, il confine è ancora aperto. Chi vuole può presentarsi in dogana e mettersi in fila per le fotografie segnaletiche e le impronte digitali. Molti, però, non vogliono.
I boschi a ridosso della frontiera brulicano di disperati d'ogni nazionalità che puntano a spacciarsi per siriani una volta giunti in Germania. L'unico modo è attraversare il confine illegalmente. Tra loro e Monaco di Baviera, però, c'è ancora un ostacolo: il muro di Orbàn. Nella campagna serba agganciamo una comitiva di profughi in marcia per il confine. Ci accodiamo. Si arranca per otto ore nei boschi, i siriani ci offrono parte del loro pranzo. Prima del confine, indossano una maglietta con il volto della Merkel: serve ad essere riconosciuti come rifugiati, ma non sanno dire chi le abbia fatte stampare. Camminiamo ancora.
A un tratto, nella foresta, il muro di filo spinato che segna il confine. Alto meno di due metri, poco più della recinzione d'un giardino. I migranti lo passano con facilità: in vista non c'è nemmeno un poliziotto. Passato il muro la strada non è semplice. I contadini ungheresi sono diffidenti: aiutare i profughi è reato penale e nessuno osa fermarsi. Solo un vecchio, in una capanna che pare tratta da una fiaba dei fratelli Grimm, offre un bicchiere di latte ad una donna che porta un neonato in collo. L'uomo è ubriaco, ma si batte il petto: a gesti ci dice che il cuore dei magiari è grande. Non tutti, però, sono così generosi.
Le campagne brulicano di trafficanti che per mille euro ti portano fino a Budapest, se va bene fino a Vienna. Viaggiare stipati nel doppio fondo di un camion è pericoloso, ogni giorno muore qualcuno, ma c'è sempre chi accetta.
Nonostante viaggino quasi tutti con uno smartphone in tasca, i migranti sono disinformati.
Hani, che insegnava inglese a Damasco, non sa dire quali frontiere siano aperte e quali chiuse. Nel dubbio, meglio passare clandestinamente. A chi non riesce a scavalcare il muro l'Ungheria non riserva un bel trattamento.
Al confine serbo, alla stazione Keleti di Budapest, le scene non cambiano: centinaia di persone lasciate ad aspettare i treni per giorni, ore e ore sedute in terra tra due file di poliziotti. Qualche testa calda c'è sempre, ma la maggior parte dei profughi ha mangiato la foglia. Turbare l'ordine pubblico non servirebbe a nulla e tutti – migranti e poliziotti – vogliono che il fiume prosegua in fretta verso la Germania.
In Germania
Arrivati a Monaco, l'emergenza è gestita con teutonica precisione, o almeno così sembra.
Davanti all'Hauptbahnhof, la polizia federale accoglie i migranti che giungono in treno da Vienna, caricati a gruppi di cinquanta sui pullman diretti ai centri di accoglienza.
Le immagini della folla che li accoglie con fiori ed applausi, però, sono lontane. La gran parte dei passanti che intervistiamo è assai scettica sulla politica delle «porte aperte» inaugurata dalla Merkel.
Alla cancelliera i tedeschi non perdonano quella frase, «l'accoglienza non ha limiti», che ne tradisce il tradizionale pragmatismo.
Anche nell'emergenza, esigono ordine, realismo e razionalità. Sanno che accogliere tutti è impossibile, che servono criteri e regole certe, a partire da quelle sull'identificazione di chi arriva. Per i migranti il viaggio è finito, ma per gli europei la vera sfida inizia adesso.
Come integrare pacificamente i nuovi arrivati? Dove alloggiarli? Come trovare loro un impiego? Sono domande a cui non è facile
rispondere, ma che non possono essere eluse. Per questo torneremo in Germania tra sei mesi, per incontrare i profughi che abbiamo conosciuto in questo viaggio.Per scoprire cosa avrà dato loro l'Eldorado europeo che sognavano.
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