Violeta Urmana: inauguro i recital di canto

Piera Anna Franini

da Milano

Violeta Urmana è nata mezzosoprano, ma appena ha potuto è migrata al registro di soprano, «alcuni critici sostengono che abbia perso il colore del mio timbro, semmai credo di aver acquistato qualcosa in più. E chi mi ha sentito in Tosca può confermarlo», dice senza la minima punta di risentimento questa donna nata a Marijampoe, piccolo centro a 140 chilometri da Vilnius, forte e fiera come vuole l’animo lituano. Ha raggiunto la Scala nel 1994 per Die Walküre, poi per Armide e per una serie di concerti con orchestra, ma il nome di questa cantante residente a Monaco, s’è impresso una volta per tutte nell’albo d’oro scaligero quattro anni fa, quando Riccardo Muti le offrì il ruolo del titolo nell’Iphigénie en Aulide, l’opera del Sant’Ambrogio 2002 che la consacrò soprano. La Urmana sarà di nuovo alla Scala per uno spettacolo d’apertura, Aida, il prossimo dicembre, con Riccardo Chailly sul podio. Vestirà per la prima volta i panni di Aida, «il caso vuole che abbia già collaborato con Chailly e proprio in una produzione di Aida, però ero Amneris e ricordo che non vedevo l’ora di poter essere Aida», racconta con un italiano fluente, frutto di un matrimonio con il tenore Alfredo Nigro.
La Urmana torna alla Scala stasera (ore 20), per il taglio del nastro del ciclo di recital di canto. Con Jan Philip Schulze al pianoforte proporrà i Wesendonck-Lieder, pagine dove Wagner traduce in musica l’amore per Mathilde (Wesendonck) e quattro romanze di Sergej Rachmaninov, autore che la Urmana, ci confessa, evitò a lungo «per motivi politici, non volevo essere identificata come cantante russa. Così mi sono sempre concentrata sul repertorio italiano e tedesco. Ora ho capito quanto mi piaccia Rachmaninov». La seconda parte del concerto è dedicata a Richard Strauss: nove Lieder, tre dei quali su testi di Heine.
La Urmana, prediletta dalle bacchette e palcoscenici di rango, narra con naturalezza un percorso avviato con prudenza: «La mia carriera è iniziata tardi, ma al momento giusto, non bisogna spingere sull’acceleratore ma nutrire l’ambizione di perfezionare la propria voce». E rammenta le tappe chiave degli studi avviati in Lituania, «dove ho studiato cinque anni con una allieva di una cantante di scuola italiana, nel 1991 mi sono trasferita in Germania per un perfezionamento di un paio d’anni. Nel 1993 ho iniziato a cantare», e ciò sulla scorta di una serie di audizioni, preparate con cura certosina, e incontri provvidenziali: «Bisogna imbattersi nelle persone giuste che credono in te e ti fanno cantare. Solo cantando puoi migliorare». Con il ruolo di Eboli al Met di New York lo scorso aprile, la Urmana ha dato l’addio definitivo alla vita di mezzosoprano, «non vedevo l’ora», trasale. In compenso il lavoro s’è fatto pressante perché c’è tutta una galleria di nuovi personaggi da allestire, per il 2006 sono in programma ben quattro debutti: Norma, Elisabetta nel Don Carlo, Gioconda (fino ad ora solo in forma di concerto) e poi Aida. Un trapasso sorvegliato con cura, «quando decisi di passare ai ruoli di soprano, testavo i nuovi personaggi in Lituania prima di farmi sentire quaggiù», svela.

Con altrettanta schiettezza spiega: «Noi lituani siamo un popolo piccolo, dover sempre difendere la nostra cultura e lingua ci ha reso forti. Ammiro l’energia e il senso di unione che contrassegnò i Lituani durante il momento critico della liberazione dall’Urss... qualità che forse vengono a mancare quando si raggiunge la libertà».

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