Il vip che morì sulla spiaggia di Capalbio

Uomo d’ordine, violento e anche un po’ vile, tenne a bada i briganti, ma a ucciderlo furono i carabinieri. E i suoi funerali provocarono una sommossa

Il vip che morì sulla spiaggia di Capalbio

La sola fotografia che si ha di lui, gli fu scattata il giorno delle esequie. Lo ritrae come apparve alla folla radunata per la cerimonia davanti al camposanto di Capalbio, la nota località di villeggiatura mondana. Il vip era in piedi, appoggiato al rudere di una colonna, con indosso la sua usuale veste di cacciatore. Aveva in testa il cappello e il fucile al fianco, il pugno destro stretto alla canna. Guardandola oggi, nessuno direbbe che la foto è quella di un cadavere irrigidito tenuto in posizione eretta da una corda sapientemente nascosta. Né che gli occhi aperti lo sono grazie a minuscoli stecchini infilati tra le palpebre.
Anche allora però, nessuno parve badare alla stranezza della situazione. La turba era troppo occupata a rumoreggiare contro il prete che le impediva di deporre il morto in cimitero. Il curato di Capalbio si era infatti intestardito a vietare la sepoltura del sessantenne in terra consacrata. La trattativa andò avanti per ore. Solo quando i più facinorosi minacciarono di passare a vie di fatto, fu raggiunto l’accordo. Il morto sarebbe stato seppellito sotto il muro di cinta: metà nella terra del Signore, l’altra metà fuori dal camposanto. Un compromesso che suonava come un riconoscimento della doppia natura del defunto: un impasto di bene e di male. Così, l’ebbero vinta buon senso e cristiana pietà.
Domenichino, nomignolo che alludeva alla sua statura di 1,60, era stato un leggendario uomo d’armi. Ebbe innati il senso dell’ordine e l’ossequio ai poteri costituiti. Alle sue truppe aveva imposto un ferreo decalogo: onora i signori del luogo, aiuta i disgraziati, non ammazzare senza ragione, non rubare. Poiché però l’essenza della sua missione era clandestina, aveva aggiunto tre altre regole all’elenco: non vedere, non parlare, non fare la spia. Il manipolo doveva insomma comportarsi non diversamente dagli 007 con licenza di uccidere dei film. Al rispetto del decalogo erano tenuti, pena punizioni severissime, tutti quelli del suo staff. Tranne uno: lui. Si era riservato un trattamento di favore non solo per sottolineare il ruolo di comando, ma anche perché a pagare gli errori dei suoi sarebbe stato in ogni caso lui. Agli occhi dell’opinione pubblica, infatti, egli incarnava l’intero gruppo di combattenti.
Quale fosse il compito al quale si era votato Domenichino, è arduo da definire. Ma atteniamoci senz’altro alla lapidaria opinione del suo maggiore biografo, lo scrittore cattolico Piero Bargellini: rispondere col sopruso al sopruso.
Per meglio capire, diamo uno sguardo allo stato in cui versava quel tratto di territorio di competenza del Nostro, tra Civitavecchia e Siena, nella seconda metà dell’Ottocento. Qui, la società era fondata sull’ingiustizia e la sopraffazione. Ai più poveri era negato perfino il diritto sacrosanto di guadagnarsi un tozzo di pane. La vita media non raggiungeva i 30 anni e le condizioni di esistenza erano allucinanti. «Le acque che bevono le popolazioni - notò un inviato del primo governo Giolitti - sono ricche di sostanze organiche provenienti dai fondi ingrassati con letame di stalla. Inclusi nel bacino di dette acque sono spesso i cimiteri dei paesi». Ripugnante. Per sopramercato, infestavano la regione briganti e grassatori di ogni specie.
Ventiquattro anni durò il controllo del territorio da parte dei legionari di Domenichino. Finché tenne la situazione in pugno, nessuna banda di ladroni poté insediarsi e spadroneggiare. I grandi latifondisti locali, tra tutti il marchese Guglielmi, godettero indisturbati le loro ricchezze. La tranquillità avvantaggiava anche i poveri che potevano accudire i loro miseri affari. Non di rado, ottenevano anche doni e occasioni di lavoro dagli armigeri-protettori.
Naturalmente, l’uso continuo delle armi per mantenere l’ordine esponeva Domenichino alla tentazione dell’abuso. Una volta uccise il guardiano di un latifondista che si era permesso di essere arrogante con lui. Un’altra, forse in preda al vino, provocò un povero raccoglitore di olive che si era spinto fin lì da Urbino. Vedendolo sfaccendato nella piazza di uno dei paesi del circondario, gli si parò davanti dicendo: «Sangue della Madonna, fermo che ti brucio. Sono Domenichino: si muore!». Il misero si inginocchiò in segno di sottomissione e Domenichino gli concesse di andarsene. Quello, senza farselo dire due volte, si mise a correre. «Ah, scappi invece di camminare?», gli urlò dietro Domenichino e, imbracciata l’arma, lo raggiunse con una fucilata facendolo secco.
Era troppo. Nonostante la benevolenza popolare, le autorità cominciarono a dargli la caccia. I reali carabinieri irruppero nel suo quartier generale. Domenichino fu sorpreso in mutande e scappò per i campi in quella tenuta. Da allora, uno dei suoi graduati, Vincenzo Pastorini, non cessò di metterlo in ridicolo rievocando l’episodio, soprattutto in presenza di donne. Per affetto, Domenichino inghiottì, una, due, tre volte.

Poi, stufo, uccise l’insolente. «Cosa fatta capo ha», commentò. Ma la sorte era in agguato anche per lui. Fu ammazzato dai carabinieri tra il compianto dei capalbiesi che, tuttora, ne tengono viva la leggenda.
Chi era?

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