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Il vizietto di Baffino: nego e poi confesso

Nell’85 intascò 20 milioni da un ras delle cliniche pugliesi: prima smentì, alla fine ammise. Anche nel 2007 si rimangiò la parola: "Se sulla missione afghana mancano i voti vado a casa", ma rimase ministro

Il vizietto di Baffino: nego e poi confesso

Tornato dalle ferie abbronzato e arzillissimo, Massimo D'Alema ha riempito di sé la settimana appena trascorsa.
Abbiamo così appreso che dei contorcimenti del Pd se ne impipa e vorrebbe anzi espatriare per fare il ministro degli Esteri dell'Ue. L'aspirazione è emersa alla Festa dell'Unità di Terni, dove si è vantato di avere «fatto bene il ministro degli Esteri per l'Italia con un lavoro che ha lasciato il segno» e di essere quindi l'uomo adatto per Bruxelles. Però, per centrare l'obiettivo, dovrebbe essere candidato dal premier Berlusconi e questo - ha aggiunto storcendo i baffetti - «richiederebbe da parte sua una generosità e una lungimiranza che sono improbabili». Quanto alla lungimiranza, il Cav ne ha già dato prova anni fa appoggiando alla presidenza della Commissione Ue, Romano Prodi, che fu un fiasco totale. Non è quindi escluso che per soddisfare l'ansia di essere amato anche a sinistra il Cav commetta lo stesso errore con Baffino. Quella che però dovrebbe certamente dimostrare è una generosità da masochista.
Tra le attività preferite di Max c'è infatti l'improperio al Cav soprattutto nei periodi in cui è a Palazzo Chigi. Eccone alcuni excerpta: «Berlusconi è un disastro»; «Berlusconi incoraggia l'illegalità in tutti i campi»; «Quelle di Berlusconi sono scemenze»; «Berlusconi dice solo bischerate»; «È un trombone»; «È il più grande venditore di favole del mondo. Sarebbe meglio che chi sa fare il piazzista lo facesse, e chi sa governare governasse»; «Porta iella».
Il giorno successivo alla Festa dell'Unità, Max è stato ospite alla festa dei giovani del Pdl. Per non smentirsi ha subito seminato zizzania nel centrodestra contrapponendo l'immondo Mostro di Arcore all'ottimo Gianfranco Fini. Il primo - ha affermato - «è privo di senso dello Stato e delle Istituzioni». Io e Fini - ha aggiunto - ne abbiamo invece da vendere. E qui si vede come l'ipocrisia si sposi con la più perfetta cecità. Come fa infatti ad affermare di avere rispetto delle Istituzioni se al Cav, presidente del Consiglio in carica, dà dello iettatore, bischero, trombone e compagnia cantante? Un impudente di tal fatta ha spazio giusto in Italia. Se va in Europa, dove sono abituati a identificarci con quel superperfettino di Franco Frattini, faremmo una figura pizza e fichi. Dia retta, Cav: per carità di Patria, si tenga D'Alema in Italia.
A parte queste due uscite pubbliche, la settimana di Max è stata allietata dal suo coinvolgimento nell'inchiesta di Bari sui brogli nella Sanità pugliese. L'ubiquo Gianpaolo Tarantini, detto Gianpi - imprenditore ospedaliero e fornitore di escort del premier - ha dichiarato ai giudici di avere anche, per par condicio, organizzato una cena elettorale a D'Alema. Sentendosi accostato al Cav, Baffino si è inviperito. Prima ha detto di non avere mai visto in vita sua Gianpi. Poi ha ammesso di essere stato al convivio, ma solo per dieci minuti. L'oste lo ha smentito dicendo di averlo visto mangiare a quattro palmenti e gomito a gomito col re delle cliniche. Ora emerge - pare dalle carte processuali - che i due si conoscevano da anni e che hanno passato ore sullo stesso yacht tra i flutti di Capri.
In ogni caso, sulla base delle rivelazioni dell'imprenditore, è stato iscritto nel registro degli indagati il pd Sandro Frisullo, sospettato di giri di denaro in cambio di piaceri d'alcova. Frisullo non è quidam de populo ma era fino a due mesi fa il vicepresidente della Puglia e da anni il braccio destro di Max in loco. D'Alema, secondo l'antico rito di Botteghe Oscure, ha in un fiato ripudiato il sodale per indegnità.
Resta, però, che Frisullo è per Baffino quello che per il Cav sarebbe, che so, un Gianni Letta, un Paolo Bonaiuti o un altro del suo stretto giro. In questo caso che farebbe un qualsiasi giudice? Ovvio: sentenzierebbe all'impronta che il Berlusca non poteva non sapere. Senza augurarci altrettanta severità, aspettiamo fiduciosi il pensiero delle toghe di Bari Vecchia sul nostro Max.
D'Alema non è nuovo a pericolose intrusioni nella Sanità pugliese. Nel 1985, quando era capataz del Pci nella Regione, intascò prebende per venti milioni di lire a maggiore gloria del partito alfiere della moralità politica. Il munifico di allora era l'equivalente del Tarantini di oggi: tale Francesco Cavallari che, come l'omologo di adesso, imperava sulle cliniche private del Tacco d'Italia. Dopo avere inizialmente negato, come fa sempre per riflesso pavloviano, Baffino ammise poi la regalia nell'aula di un tribunale.
Sul valore che D'Alema dà alla sua parola si potrebbero scrivere diversi tomi. Buon esempio è quanto accadde nella crisi del governo Prodi nel febbraio del 2007. Max era allora ministro degli Esteri e, nell'affrontare il discorso nell'aula del Senato sul rifinanziamento della missione afghana, premise: «Se mancano i voti, ce ne andiamo tutti a casa». Tradotto: se il governo cade, si torna alle urne. O, tutt'al più, se ne fa un altro ma io di certo non ne farò parte. Il governo cadde, tre giorni dopo era di nuovo in piedi e Max restò tranquillamente alla Farnesina.
Per incomprensibili ragioni, D'Alema è considerato il più intelligente e liberale dei politici di sinistra. La sopravvalutazione è diffusa innanzitutto nel centrodestra. «È il meno ideologico, il più pragmatico, l'unico con cui sia possibile accordarsi», affermano. Quali accordi siano stati stretti con lui, resta però un mistero. In anni di annunci, non si è cavato un ragno dal buco.
A seminare questa fantasia nel Polo è stato Giuliano Ferrara. Da ex comunista, Giulianone si picca di capire gli antichi compagni. Convinto che Max abbia doti straordinarie ha fatto per lustri un pressing sul Cav perché negozi con lui. Il Berlusca, che nel fondo è un bonaccione, ci provò una dozzina di anni fa quando Baffino presiedeva la Commissione parlamentare per le Riforme costituzionali. A chiacchiere, si accordarono su due punti: il ridimensionamento delle toghe politicizzate e la trasformazione della Repubblica da iperparlamentare a quasi presidenziale. Ma D'Alema, apparentemente sicuro di sé fino all'arroganza, è uno che ha paura della sua ombra. Alla magistratura bastò alzare la voce perché rinunciasse a riformarla. Lo stesso accadde sul semipresidenzialismo quando a protestare furono i sinistri del suo partito. Conclusione: la Commissione D'Alema naufragò con un suggestivo buco nell'acqua.
Max si prende per un padreterno ma quando ha il pallino in mano non lascia traccia. Diventato fortunosamente presidente del Consiglio - complice il Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro - ha fatto un paio di cose, nessuna commendevole. Il suo primo atto fu infilare l'Italia nell'unica guerra dopo mezzo secolo, mandando l'Aeronautica a bombardare la Serbia. Un'operazione Nato non autorizzata dal Parlamento e ordinata da D'Alema solo per accreditarsi, lui ex comunista, presso le cancellerie occidentali. La seconda alzata d'ingegno fu avallare la sottrazione della Telecom, che era pubblica, da parte di un avventuroso gruppo privato. La «cordata padana» di Colaninno e soci ci fece su molti soldi rifilando poi l'azienda depauperata a Marco Tronchetti Provera, lo sprovveduto di turno. Il premier D'Alema fu, nella circostanza, così alacre da suscitare l'ironia dell'ex parlamentare di sinistra e noto avvocatone, Guido Rossi, che definì Palazzo Chigi «l'unica merchant bank (banca d'affari, ndr) in cui non si parla inglese». Tramite tra governo e padani fu il ds Pierluigi Bersani, allora ministro dell'Industria e legatissimo alle cooperative rosse. Le coop entrarono infatti nella gabola attraverso l'Unipol. Di qui, lo speciale rapporto tra Max e Bersani che, non a caso, D'Alema candida ora alla guida del Pd.
L'affezione all'Unipol è stata confermata da Baffino in tempi più recenti. Accadde quando il suo presidente Giovanni Consorte tentò la scalata alla Bnl. Tutti ricordano la telefonata in cui Max, entusiasta, disse a Consorte che ci stava riuscendo: «Facci sognare! Vai!». Questo accadeva nel 2005. Nel 2007, il pm Clementina Forleo ipotizzò nella faccenda il reato di concorso in aggiotaggio per D'Alema allora ministro degli Esteri di Prodi. Si sa come andò a finire. A Forleo fu sottratta l'inchiesta e il Csm ne ordinò il trasferimento. Da allora, almeno a mia scienza, del coinvolgimento di Max non si seppe più nulla.
Baffino è un comunista dalla testa ai piedi. Comunista è tutta la famiglia. Lo furono il padre e la madre. Lo è il fratello, Marco, di tre anni più giovane. Idem, la seconda moglie, Linda Giuva. La progenie è originaria di Maglionica, in Basilicata. Gli eventi però li hanno portati in giro per l'Italia. Il padre Giuseppe, ex fascista e poi deputato del Pci, nacque a Ravenna, Massimo a Roma, Marco a Venezia.
Max frequentò le medie a Genova. Un giorno chiese l'esonero dall'ora di religione con l'assenso convinto dei genitori. «Sono ateo», disse all'insegnante stupita. I compagni - dice la leggenda - lo canzonarono: «C'hai la muffa in testa». «Meglio della merda che c'è nella vostra», replicò con garbo l'aspirante capo della diplomazia Ue.
Stranoto è l'episodio del Baffino undicenne incaricato di aprire il IX congresso del Pci con un discorso di benvenuto a Palmiro Togliatti. Lo scrisse da sé, rifiutando l'aiuto del padre. «Se no, non riesco a ricordarmi quello che voglio dire», dichiarò al genitore. Per nulla impressionato dalla vasta platea, il ragazzino - vestito da Pioniere d'Italia (gli scout del Pci) - snocciolò un seriosissimo pistolotto e concluse stentoreo: «Compagni, all'opera! E buon lavoro». Togliatti, impressionato dalla maturità marxista del piccolo Max, esclamò: «Ma questo non è un bambino. È un nano!». Ossia un adulto in braghe corte.
Iscritto a Filosofia alla Normale di Pisa, Baffino (fu allora che adottò i mustacchi) intervallò studi, attività politica come capogruppo pci al consiglio comunale e casino sessantottesco. Partecipò a tre manifestazioni cruente e per due fu fermato dalla polizia, finendo sotto processo. La prima è stata un sit-in contro il vicepresidente Usa, Hubert Humphrey in visita in Italia. La seconda un assalto alla Bussola di Forte dei Marmi per il veglione di fine anno. Max urlava contro «il lusso dei padroni» mentre un suo compagno, Soriano Ceccanti, colpito da una pistolettata, rimaneva paralizzato. La terza, senza conseguenze giudiziarie, fu un blocco dei binari versiliesi. Anni dopo, Baffino si è vantato di avere anche lanciato una bottiglia molotov, ma non saprei dove situare l'impresa.
Tra questi diversi corpo a corpo mise incinta una ragazza, Gioia Maestro, figlia di un docente comunista di Fisica. I bacchettoni del partito gli imposero il matrimonio. Avvenne a Volterra, lui di 22, lei di 18 anni. «Non ne sentivamo il bisogno, fu il Pci a costringerci», confessò Gioia anni dopo. Trascorsi diciotto mesi erano già separati. Ma, per timore di reprimende, non lo fecero sapere in giro e partirono per il viaggio di nozze - rinviato al tempo della cerimonia - quando già tutto era finito. Per dire, con che tipo schietto e aperto abbiamo a che fare.
Delle sue avventure esistenziali non si finirebbe mai di parlare. Lo spazio però mi costringe a risparmiarvi altri particolari dei suoi primi sessant'anni.

Tanto, ahimè, sono nella memoria di tutti.

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