Politica

"Voto per te, non dirlo" L’Emilia ora è verde Lega

Le ex roccheforti di sinistra simbolo di un cambiamento che pare inarrestabile I nuovi sindaci: "Gli ideali sono rimasti gli stessi, è il Pd che li ha traditi"

"Voto per te, non dirlo" 
L’Emilia ora è verde Lega

nostro inviato a Sassuolo (Modena)

«“Te” ti ho votato perché potevo mica eleggere una meno di sinistra». A confessarlo in un orecchio ad Alan Fabbri, 30 anni, ingegnere, sindaco leghista di Bondeno, bassa ferrarese, è stata dopo le ultime elezioni un’anziana e irriducibile compagna comunista del paese. La candidata da lei definita invece «meno di sinistra», detto con disdoro e pronunciato come usa qui, sibilando le esse, era la capolista del Pd, Patrizia Micai. Il primo cittadino Fabbri, codino scuro e chitarrista per diletto - «suono nelle feste, sì anche in quelle dell’Unità» - sintetizza così il suo successo al ballottaggio del 21 e 22 giugno scorsi, con quell’eloquente 57% contro il 43% dell’avversaria che ha fatto di lui il primo sindaco del Carroccio nella storia di questa terra ferrarese che da sempre lavora e si diverte, si sposa e si moltiplica, pur se a otto metri sotto il livello del mare.
Per conoscere invece il primo sindaco leghista in assoluto dell’Emilia intera - perché eletto al 1° turno, due settimane prima - bisogna lasciare la Bassa e arrampicarsi a 275 metri d’altezza, a Viano, sui rilievi reggiani. Dove anche di sabato mattina Giorgio Bedeschi, 61 anni, artigiano in pensione, orecchino al lobo destro, barba rada e caschetto biondo cenere tagliato alla complessino beat anni Sessanta, è già al lavoro in municipio, affacciato su una valle da favola dove l’aria profuma di brava gente e di tartufo. «Siamo qui, perché ai 19 dipendenti comunali, tutti di sinistra, ho detto chiaro e tondo che dobbiamo mettere via la politica in quanto abbiamo 3.400 datori di lavoro, i cittadini, che sono anche i nostri primi e unici clienti».
Bedeschi era comunista. Fino a quando, 14 anni fa, folgorato sulla via di Gemonio, ha fatto un clamoroso outing paesano. «Ho aperto un gazebo in piazza, in mezzo al mercato, con la bandiera e il volto del grande Umberto. Perché lui era grande, è grande e sarà sempre il più grande. E lì, in piazza, ho detto a tutti: “D’ora in poi mi trovate qua”. Certo, mi è costato, la mia azienda ha perso un sacco di commesse di pubbliche amministrazioni perché da queste parti è sempre stato così: se sgarri ti marchiano e perdi il lavoro». Bedeschi, in compenso, ha preso i voti, quelli che in democrazia contano per davvero, quelli della gente: nel ’99 il 13%, quattro anni dopo il 26% e nel giugno scorso il 53%. Un'escalation al raddoppio, a ogni tornata elettorale. A dirla così, suona soltanto come una serie di numeri. Invece è altro. È di più. Molto di più.
Sembrerebbe infatti sempre la stessa, questa Emilia, vedendola scorrere oggi dietro ai finestrini dell’automobile. Non appare cambiata quella di pianura, tanto verde e tanto piatta da fare invidia a un biliardo da bar di camionabile, di quelli che d'inverno la nebbia resta chiusa fuori, mentre dentro è schioccar di filotti, profumo di brandy e laiche litanie di «boia d’un mond leder». Ma non appare diversa nemmeno l’altra, quella ondulata di floride colline, quasi il sogno felliniano di una distesa di ragazze a seni insù, sodi e a malapena trattenuti dai loro maglioncini d’erba. Eppure qualcosa è cambiato - ben più di qualcosa - in queste lande di terra grassa e fiumi gravidi, di porticati ombrosi e piazze assolate, di monolitici consorzi agrari stile soviet e trattorie dalla cucina tanto pesante quanto dai nomi incredibilmente leggeri: «Aquila nera», «Progresso», «Libertà»...
È un cambiamento che non si vede. Che è dentro, nelle teste più che nei cuori, nelle idee prima che nelle parole. Perché questa terra (e questa gente) che per decenni ha votato compatta i suoi rubizzi Pepponi, nella fiduciosa attesa di una Rivoluzione di falci, martelli e pugni alzati, non è davvero più la stessa. Con le bandiere rosse che scolorano, lasciando via via il vento ad altre, azzurre o tricolori. E con un sol dell’avvenire sempre più pallido, intimorito com’è dai baldanzosi raggi di quell’altro, di sole. Quello bianco e verde. Inedito, ma qui sempre più rampante. Quello leghista delle Alpi, giunto a illuminare anche l’Appennino.
Basterebbero alcuni dati, come quelli che snocciola a memoria Angelo Alessandri, parlamentare del Carroccio e coordinatore per l’Emilia. «Nel Reggiano, tra comuni e Provincia, siamo balzati da 13 a 97 consiglieri eletti e nel Modenese da 12 a 65. Ma siamo anche arrivati al 15% dei voti in provincia di Parma, al 17% a Piacenza, al 12% a Bologna e all’11% a Ferrara». Ci sarebbe poi da raccontare anche la Romagna, dove non fosse stato per il voltafaccia dell’Udc (ed è successo altrove) poteva quasi cadere anche la rossa provincia di Rimini. Così come sarebbe doveroso menzionare tutte le amministrazioni conquistate dal Pdl. Insieme, fanno una serie di cifre che è però riduttivo rubricare alla voce «Cronaca». Perché quanto è iniziato qui, è materia da laboratorio politico e da studio sociologico. Perché prima di essere un trionfo del centrodestra, è autentico trauma per i compagni, «i tovarish», come li chiama scherzando il sindaco Fabbri.
«La verità è che se la sono cercata. Questa è stata la loro sconfitta, prima che la nostra vittoria», dice convinto Luca Caselli, trentaseienne di casacca An che dopo decenni ha strappato alla sinistra, per il Pdl unito, l’amministrazione di un’altra roccaforte comunista, Sassuolo. Un tempo florida e tranquilla capitale della ceramica, ma oggi piagata dalla crisi della piastrella e da una criminalità diffusa, figlia naturale dell’immigrazione clandestina. «Il cambiamento c’è stato sì, perché la gente era stanca di questa situazione - insiste e spiega Caselli -. Ma io penso soprattutto per la totale assenza di dialogo dei compagni nei confronti della gente. Qui in Emilia, più che altrove, si erano adagiati sull’idea di non poter mai perdere, con una arroganza politica che ha finito per chiudere i loro occhi, per accecarli». Con la conseguenza che ora barcollano, come pugili suonati, incapaci non soltanto di reagire, ma perfino di tenere alta la guardia.
Parla anche di banale (e mancata) buona educazione, il sindaco Caselli. «Sì, quello che ha strabiliato di più i 300 dipendenti comunali, e me lo sono venuti a dire, è stato il mio uso abituale all’espressione “per piacere” quando mi rivolgo a qualcuno. Loro non l’avevano mai sentita usare dai miei predecessori. Quando mi sono insediato, ho anche mandato a tutti una e-mail di saluto, che mi pareva il minimo. E invece, sono stati altrettanti “Ohh” di meraviglia».
Attribuisce così il cambio del vento alla misura che era ormai colma, «alla voglia delle gente di rompere finalmente quella cappa rossa che per decenni ha soffocato tutto, ma anche alla scoperta determinazione di voler sciogliere questa micidiale unione di interesse, potere e clientelismo che ha la massima espressione nell’intollerabile e ingiustificabile onnipotenza delle coop. Che almeno cominciassero a pagare le tasse come tutte le altre imprese. Ma se soltanto lo dici, quelli hanno anche la sfrontatezza di indignarsi».
Lui, Caselli, si era ribellato molto prima, da ragazzo, alla fine degli anni Ottanta, iscrivendosi a quello che allora si chiamava Msi. «Un po’ per influenza paterna, papà era stato giovane balilla, ma anche per quell’amore per la diversità e la discussione che c’è sempre stata in famiglia e che senz’altro mi ha regalato questa testa aperta». Già, perché come quasi in tutte le storie umane raccolte in questo viaggio emiliano, anche nella sua c’è almeno un ramo di famiglia, se non entrambi i rami, di solida tradizione di sinistra. «Così nonna Ines, comunista ed ex operaia della Manifattura tabacchi di Modena, quartiere Crocetta, per votarmi come candidato sindaco ha messo la croce sul nome e non sul simbolo. Mentre quando si era trattato di altro tipo di elezioni, con invece i simboli di partito, lei ci scriveva accanto il mio nome, senza barrare lo stemmino di An». Salvando così, insieme, la rocciosa coscienza politica e l’infinito amore per il nipote.
Di qualcosa di più, di qualcosa che va oltre, ovvero di un esempio di localissimo «voto disgiunto», racconta Marco Lusetti, trentacinquenne ex operaio e fresco vicesindaco leghista di Guastalla (Reggio). «Fino ai vent’anni ero comunista, come del resto tutti in famiglia. Papà Ivo, per dirle, lo chiamano “Togliatti”, mentre nonna Nerina, ex staffetta partigiana, aveva avuto come nome di battaglia “Gramsci”». Eppure è stato un sussurrato «voto per te, ma non dirlo a nessuno», il messaggio lasciatogli dalla nonna prima entrare al seggio. A sostenerlo così, con questo emilianissimo voto disgiunto - alle europee ovviamente Pd - hanno contribuito anche mamma Anna Maria e tutti gli altri in famiglia.
«Il fatto è che mi ritengo ancora di sinistra. Ho smesso di esserlo quando loro hanno cambiato la bandiera e tradito il linguaggio. Io facevo orgogliosamente le patate fritte da volontario non retribuito alle feste dell’Unità, mentre ora i volontari non ce li hanno più, a patto di pagarli. Nel senso che sono stati loro, i comunisti, a perdere la strada, mentre la nostra gente ha scoperto via via che la Lega Nord è interclassista, identitaria e territoriale. Se abbiamo messo in difficoltà queste amministrazioni è perché parliamo lo stesso identico linguaggio della gente. Perché questa, in fondo, è rimasta una terra di sinistra, di gente di sinistra, che però ha cominciato a capire che la sistematica criminalizzazione e demonizzazione degli avversari era un falso. E non gli hanno creduto più, iniziando a votare per noi. Agli inizi eravamo tre soli iscritti, a Guastalla. Due anni fa eravamo in 20, ma oggi siamo 150. Il Carroccio vince perché ha capito quello che diciamo da sempre noi da queste parti. Ovvero “fatti, mica pugnette”».
Non a caso è con la stessa logica che Bedeschi, su a Viano, ha vinto diventando il pioniere dei sindaci leghisti emiliani. «Il mio programma elettorale? Un foglio bianco e una penna biro. Andavo in giro di casa in casa dicendo “scriviamolo insieme e io poi lo mantengo”. Mi hanno dato fiducia. È così che abbiamo aperto questa crepa in Emilia, e se in sede federale lo capiscono, è così che ora la possiamo anche allargare». Eppure lui, quello che dopo la vittoria, sul palco di Pontida, davanti a 60mila osannanti, non ha trattenuto una lacrima, ricorda e non rinnega certo i suoi precedenti in rosso. Anzi.
«Del resto è la nostra storia - spiega -. La mia famiglia ebbe la casa bruciata dai fascisti, una zia fu torturata e nel borgo di Fagiano, qui vicino, i primi due nomi sul monumento ai caduti della Resistenza sono di miei zii. E mamma Orsolina, povera donna, lei mi ha detto: “Giorgio, io non contesto la scelta che hai fatto, ma tu non togliermi la mia appartenenza”. Figuriamoci se lo avrei mai fatto. Due anni fa, quando purtroppo è morta, le ho anzi organizzato il funerale comunista, quello con le bandiere rosse in piazza, quello che non usa più nemmeno qui. Glielo dovevo perché dopo la morte di Berlinguer e la caduta del muro lei, poverina, era andata in confusione. Ma quelle bandiere erano il suo orgoglio, mentre quelli di oggi non ce l’hanno più. Si vergognano perfino di dirlo.

Perché quel Pd che si sono inventati, quella roba lì, che cosa vuol dire? Glielo dico io che cosa vuole dire: vuol dire “Popolo Deluso”».

Commenti