Politica

Se a sinistra la stampa è più violenta

La sinistra attacca l'eredità di giornali come "Candido" e "Il Borghese". Poi però "Fatto" e "Repubblica" mettono in prima pagina odio ad personam e volgarità

Se a sinistra la stampa è più violenta

Ma davvero la stampa di destra ha un linguaggio sguaiato e manesco, come afferma la Repubblica? Davvero è tipico del giornalismo di destra l'attacco ad personam, l'insulto e il dileggio, persino del nome e del fisico? E davvero ogni attacco violento e triviale sul web può passare per linguaggio fascista?

Sarebbe facile compiere un'analisi inversa e ricordare di quanti giudizi sprezzanti, di quanto odio ad personam sia intrisa la satira in tv e la stampa di sinistra, i suoi vignettisti e le sue campagne. Senza andare lontano non sarebbe difficile ricordare la volgarità sbattuta in prima pagina da la stessa Repubblica con i personaggi di Altan che infilano ombrelli nel deretano; gli insulti anche fisici, rivolti a Berlusconi e Bossi, lo strisciante razzismo antropologico verso chi è di destra... Se si dovesse cercare un precedente alle campagne stampa della Repubblica e del Fatto su Berlusconi, Dell'Utri o Formigoni, lo si potrebbe a rigore ritrovare nelle campagne del Candido di Giorgio Pisanò contro i morotei per l'affare petroli o contro i socialisti: «Mancini sei un ladro» o «si scrive leader e si legge lader» hanno preceduto i titoli contro Craxi e poi Berlusconi. Non è un tratto esclusivo della stampa di destra l'attacco violento ad personam, la caccia all'uomo, la manipolazione dei fatti, la fabbrica del fango e del disprezzo verso il nemico di turno...

Ma rispedendo l'accusa ai mittenti si eluderebbe la questione. Esiste un linguaggio volgare di destra, tipicamente di destra? Sì esiste, è inutile nasconderlo. C'è un ramo storico di volgarità nella stampa di destra e una trivialità che è invece più figlia del presente, tra brutali semplificazioni e facili sghignazzi. La volgarità storica della stampa di destra oscillava tra le rozze battute da caserma e il ghigno squadrista, l'antica cafoneria del corso e il qualunquismo bieco della domenica. La volgarità più recente si è nutrita di un pasticcio fra rozzismo padano e populismo televisivo, un incrocio tra cazzeggio da schermo e celodurismo giornalistico. Altri soggetti hanno poi contribuito a involgarire il linguaggio: penso per esempio che Bossi abbia avuto il dubbio merito di unificare l'Italia offrendo una versione padana della cafoneria e burineria tipica del Centro-Sud. Non va poi dimenticato che il turpiloquio, l'involgarimento odierno non hanno una matrice politica; passano dalla tv e dal web dove è emersa l'arroganza degli ignoranti che finalmente possono insultare il famoso che «sta antipatico». E sarebbe da studiare l'effetto Funari, l'effetto Dagospia (pur brillante per altri versi), l'effetto processo sportivo in tv, l'effetto satira d'assalto e d'insulto. La tv unita alla demagogia di abbassarsi al livello più basso per raggiungere tutti, ha contribuito all'imbarbarimento del linguaggio.

Il riferimento specifico di Ezio Mauro era al Borghese nella sua stagione «più torva». Nella storia del Borghese bisogna distinguere varie ere: quella originaria, dal 1950 al '57 di Leo Longanesi, con le sue splendide firme, foto e vignette; quella più marcata a destra di Mario Tedeschi e Gianna Preda, a volte un po' greve, che però ebbe più successo di vendita, per quasi un ventennio, poi declinando, legandosi prima al Msi e poi a Democrazia nazionale fino a ridursi al lumicino. Poi due parentesi negli anni '90, una destro-leghista con Daniele Vimercati (e vi collaborava anche Travaglio) ed una con Feltri (con me direttore editoriale), poi confluita in Libero. Infine ora, come mensile diretto dal figlio di Tedeschi, Claudio, tornato all'ortodossia paterna. Da una costola del Borghese prese corpo anche il cabaret di destra. Anche il Candido era nato da Guareschi ma poi fu diretto da Pisanò, diventò più aggressivo, a volte un po' truce, ma anche segnato da inchieste veramente coraggiose. C'era poi una destra «perbene» che leggeva Lo Specchio di Nelson Page, e tra i quotidiani Il Tempo di Renato Angiolillo, Il giornale d'Italia e a Sud il Roma, in cui spiccava Alberto Giovannini. La destra pop era al nord, con La Notte di Nino Nutrizio. Più di recente vi fu l'esperienza dell'Italia settimanale (e Lo Stato) ed ebbe buon successo di critica, anche a sinistra. Tante erano poi le riviste culturali a destra.
Qual è lo specifico del linguaggio usato dalla stampa di destra? Escluso l'attacco ad personam e le campagne di stampa e di fango, comuni anche a molta stampa di sinistra, e la cui asprezza o volgarità dipende dal garbo e l'educazione di ciascuno, piuttosto che dall'appartenenza alla destra o alla sinistra, la vera differenza riguarda lo stile.

È vero, a destra il linguaggio è più diretto; e questo a volte è una colpa, perché più brutale e grossolano; a volte un merito, perché non è ipocritamente asservito al politicamente corretto. È vero poi che a destra si usa di più la presa in giro attraverso l'aspetto fisico, il nome, il gesto, il calembour, il gioco di parole: è volgare se si vuol denigrare una persona per il suo aspetto o il suo nome, non lo è se il nome o l'aspetto è usato come metafora, allegoria o allusione del suo modo effettivo di pensare e comportarsi. A destra, si può far satira e invettiva nel segno di Papini, Longanesi o Montanelli o in quello di grossolani epigoni illetterati. Se dico che Bersani è un incrocio tra Lenin e Gargamella non intendo offendere il suo aspetto fisico o fare della sciocca fisiognomica; intendo, tramite una somiglianza doppia, sottolineare la sua ascendenza veterocomunista che a volte riaffiora, unita a un tono burbero da fumetto, da mondo dei Puffi. Se dico che Di Pietro è un rustico «aglio, olio e ghigliottina», non intendo affatto denigrare le sue origini contadine, ma sottolineare il curioso incrocio politico giacobino-vandeano, e i suoi modi ruspanti, da Crusca (senza Accademia).

La satira, a volte, è l'ultimo rifugio dei pessimisti, assai frequenti a destra, che ritenendo impossibile cambiare le cose, le affrontano dal lato grottesco. Magari la satira è la maschera di Zorro e poi in disparte si coltivano studi, pensieri e linguaggi molto diversi. Come Messer Niccolò che prima s'ingaglioffiva nella vita quotidiana e poi tornava nella solitudine del suo studio, si liberava della veste sporca per indossare abiti di cerimonia, dialogava con i grandi e tornava a ragionare di pensieri più alti con intelletto d'amore.
A volte l'unico modo per stare al mondo è coltivare una consapevole schizofrenia.

di Marcello Veneziani

segue a pagina 4

Jacopo Granzotto a pagina 4

Commenti