Cronaca locale

ADA GRECCHI «L’età delle passioni» di una donna in carriera

È stata una pioniera del gentil sesso. Top manager dell’Enel, ha avuto incarichi politici e internazionali. Ora l’ultima sfida: un romanzo

Stefania Vitulli

Ada Grecchi è milanese fin nel midollo. Lo si capisce da due cose: dall'accento marcato, che si impone da subito e che dimostra l'orgoglio di un'appartenenza profonda («Sono una delle ultime a parlare e capire il dialetto milanese»), e dal percorso biografico e professionale, densissimo e inarrestabile. Una vita di corsa, quella di Ada Grecchi, come ha ben sintetizzato nel titolo dell'autobiografia che ha pubblicato quattro anni fa (Koinè, pagg. 158, euro 12,40). Una vita di corsa come quella di tante altre donne milanesi, che alla dimensione metropolitana devono gioie e dolori della propria carriera. Ada Grecchi però, ha qualcosa di eccezionale: ha cominciato prestissimo, in un periodo in cui delle donne manager in Italia non esisteva ancora la categoria. Classe 1936, laureata nel febbraio del 1959 a pieni voti in Giurisprudenza, è diventata una delle pioniere di quella sfida che ha permesso l'ingresso delle donne italiane in azienda ai massimi vertici dirigenziali. E Milano è stata il cuore della sua sfida, per quaranta lunghi anni, in cui ha collezionato una sfilata di successi e incarichi: top manager Enel, vice presidente della Commissione Pari Opportunità, incarichi internazionali per la Commissione Europea, assessore al Personale, organizzazione e politiche femminili per la Provincia. Ma anche mamma, nonna, viaggiatrice e, nell'ultimo anno, scrittrice: il suo primo romanzo, L'età delle passioni (Sperling & Kupfer, pagg. 182, euro 10), naturalmente ambientato a Milano, è in libreria da pochi giorni ed è stato presentato ieri.
E se le chiedessimo di riassumere questa corsa in poche parole, avvocato Grecchi?
«La grande spinta mi veniva da mia madre, una bidella che aveva fatto solo la sesta elementare ma leggeva i libri di Cassola e aveva sofferto tutta la vita perché era troppo colta per il lavoro che faceva. Sempre grazie a borse di studio feci il classico e poi l'università. Mentre studiavo andai due anni in Inghilterra con autostop perché l'inglese bisogna saperlo. Mi andò sempre bene: un “Signore dei pazzi” esiste. Poi ho tentato di fare la professione ma ho incontrato solo avvocati che allungavano le mani, non mi spiegavano niente e non mi pagavano nemmeno. Fu il mio professore a presentarmi alle grandi aziende. Mi chiedevano: “È fidanzata?” e non mi assumevano mai. Poi capii. Alla Edison dissi: “Sono sterile e non sono fidanzata”. Nel 1963 rimasi incinta del primo figlio e dichiarai il miracolo».
Ma il passaggio alla dirigenza come avvenne?
«Ero all'ufficio legale all'Enel. Quando alla fine degli anni Sessanta iniziarono le grandi lotte sindacali decisero di provare a farle affrontare a una giovane avvocato piuttosto che ai soliti ragionieri anziani. A 29 anni mi misero davanti a cento persone. Ero l'unica donna a fare il lavoro di trattativa sindacale. Giorni e notti in cui i sindacati si sostituivano ma io ero sempre la stessa. Non le dico quanti assistenti mi hanno abbandonato. Nel 1971 ero già dirigente, poi fui vice capo a Milano per 17 anni e dopo quattro anni a Como mi promossero direttore a Roma e poi vicedirettore centrale. La prima volta che sono andata a Bruxelles per l'Enel, che era l'azienda più ricca del paese, a occuparmi dei rapporti comunitari, avevo 55 anni, ma ho deciso che dovevo imparare il francese. L'ennesima sfida».
Come donna, il gusto della sfida è stato più forte della vita privata, della famiglia?
«Non ho goduto abbastanza l'infanzia dei miei figli. Ma la sfida mi piaceva, ci ho preso gusto e mi sono sentita realizzata. Per cinque volte il posto sopra di me si è fatto libero. Prima ero troppo giovane, poi altre scuse. Allora mi sono autocandidata. Risposta del direttore generale: tra un uomo democristiano e una donna socialista non ho dubbi, scelgo l'uomo democristiano. Oggi a Milano abbiamo un sindaco donna: è anche il risultato di tutte queste lotte, delle leggi e della fatiche di donne come la Cappiello, la Marinucci, la Belisario. Questo è ancora un Paese dove avere un premier donna suonerebbe strano».
Milano l'ha aiutata oppure ostacolata in questa lunga carriera?
«La città oggi è un ostacolo per una donna che vuol far carriera, per le distanze tra lavoro e casa, il traffico infernale. Negli anni Sessanta me ne andavo a lavorare in cinquecento e in un quarto d'ora tornavo a casa, nell'intervallo di mezzogiorno. La città era ancora a misura d'uomo: al mio matrimonio venne tutta la via, i funerali passavano per le strade, l'immigrazione era interna, il problema della sicurezza, a parte gli anni del terrorismo, era limitato alle bande criminali note e al fidanzato geloso che sparava alla morosa. La famiglia mi aiutava in tutti i modi e i miei figli non erano mai abbandonati ad estranei. D'altra parte il lavoro che permette la carriera c'è solo in città e se si vive fuori, alla tensione di allevare i figli si aggiunge quella del pendolariato. Devi stare sveglia a casa coi figli, sveglia in macchina e sveglia in ufficio. Perché nessuno fa sconti alle donne in quanto donne».
Il suo romanzo è ambientato appunto degli anni bui del terrorismo...
«È la storia di Paolo, un sindacalista, uno che stava dall'altra parte del tavolo rispetto a me, in quegli anni. Ma viveva una vita speculare a quella che ho vissuto io. Il rischio, nei confronti delle Brigate Rosse, era il medesimo, perché prendevano di mira sia noi che loro. Molte di ciò che accade nel romanzo è accaduto realmente».
Una scrittrice molto amata a Milano, Sveva Casati Modignani, ha dichiarato di essersi ispirata alla sua vita per il suo ultimo bestseller, «Rosso corallo». Ce lo conferma?
«Si è davvero ispirata al percorso della mia vita, sia professionale che personale, anche nei dettagli. Quando nel romanzo la direzione dell'azienda decide di cambiare i portacenere di cristallo con quelli di plastica, perché ce li tiravano dietro, ecco quelli sono i nostri giorni di lotte sindacali. Quando gli operai gridavano: “Arriva la rossa!”, quella rossa ero io.

La Liliana Corti di “Rosso corallo” c'est moi, glielo confermo».

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