Arte

Il bello ideale e cristiano di Rosmini e Raffaello

Le riflessioni sull'estetica del filosofo trovano piena corrispondenza nelle opere dell'Urbinate

Il bello ideale e cristiano di Rosmini e Raffaello

Mi sono chiesto, a proposito di Antonio Rosmini, quale fosse la sua percezione dell'arte. La più alta personalità del '900 rispetto alla definizione di estetica, Benedetto Croce, fu distratto e indifferente di fronte alla bellezza delle opere d'arte figurativa: non si dà, oltre che per la poesia, un'attenzione particolare di Croce per la pittura, la scultura e la musica. Nessun dubbio che la musica sia la prima e la più alta espressione della creatività dell'uomo. La seconda è la pittura: le prime testimonianze di pittura sono nelle grotte di Altamira, di Lascaux, e si datano tra 10mila e 15mila anni prima di Cristo.

L'ultima espressione della creatività dell'uomo è la poesia, la letteratura, la scrittura che datiamo circa a 3500 anni fa. In Croce c'era una limitazione di campo che ho immaginato essere anche in Rosmini, finché non mi sono imbattuto in una pubblicazione di Elisabetta Rizzioli, Antonio Rosmini Serbati conoscitore d'arte (edito da La Garangola), in cui l'autrice ci restituisce un'immagine inedita di Rosmini. E così, meditando su Rosmini, ho inizialmente pensato ad Antonio Canova. Del resto, sono presidente del Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto e quindi sono del luogo da cui inizia lo spirito di Rosmini, ma sono anche presidente della Gypsotheca di Canova, per cui il rapporto Rosmini-Canova sul piano intuitivo, attraverso il grande teorico Leopoldo Cicognara che vedo spesso ricordato nel libro della Rizzioli, mi sembrava un punto di partenza. Peccato però che Rosmini nasca nel 1797 e Canova nel 1757, quindi non sono coetanei, benché i valori che essi rappresentano abbiano molti punti comuni, legati all'idea di bello ideale, stabilita da Bellori in antagonismo con la figura drammatica e centrale della nostra storia dell'arte che è Caravaggio. Oppure, viceversa, valutare la contemporaneità di Rosmini con Giacomo Leopardi, nati a distanza di pochi mesi.

Nessuno è più vicino a Dio di Leopardi che ne è così lontano. E così ho pensato, essendo Leopardi nato nel 1798 e morto nel 1837, e Rosmini nato nel 1797, che essi sentissero un'aria comune in rapporto con il pensiero del tempo e i grandi pensatori stranieri, come Chateaubriand ed Hegel, e si esprimessero in concentrati di pensiero di chi sente la profonda nostalgia di Dio pur avendo la certezza razionale che è insufficiente per il rapporto con Dio, altrimenti non esisterebbe la fede. Come la fede ci proietta nella speranza dell'immortalità, l'artista lavora per un solo obiettivo: l'immortalità, non morire, avere un prolungamento della vita nell'opera che ci lascia. Quindi niente è più vicino alla fede e alla prova che Dio esiste, in senso razionale, dell'opera d'arte. Così vale per l'opera di Canova. Queste considerazioni sulla visione di una condizione divina della creazione artistica nella sua resistenza al tempo, nella sua immortalità, è contraddetta dai seguenti versi di Leopardi: "Or poserai per sempre,/ Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,/ Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,/ In noi di cari inganni,/ Non che la speme, il desiderio è spento./ Posa per sempre. Assai/ Palpitasti. Non val cosa nessuna/ I moti tuoi, né di sospiri è degna/ La terra. Amaro e noia/ La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo./ T'acqueta omai. Dispera/ L'ultima volta. Al gener nostro il fato/ Non donò che il morire. Omai disprezza/ Te, la natura, il brutto/ Poter che, ascoso, a comun danno impera,/ E l'infinita vanità del tutto". Siamo nel 1820 e in questo testo terribile, A me stesso, il pensiero leopardiano indica l'opposto del pensiero di Rosmini. Leopardi è agli antipodi perché ha sperato di poter essere dalla stessa parte di Rosmini, e cioè di poter credere di essere eterno. Leopardi, non soltanto non ha più la speranza di ingannarsi con l'ipotesi dell'eternità, ma non ne ha neanche più il desiderio. È totalmente deluso. Le meravigliose poesie di Leopardi sono "i moti", ma sono inutili, lui non pensa che resteranno. E quel "morire" vuol dire non morire per rinascere, non morire per risorgere, ma morire punto. "Omai disprezza/ Te, la natura, il brutto/ Poter che, ascoso, a comun danno impera". Ecco, questo virus è questo brutto potere che rende l'uomo (nell'attività politica, nei rapporti personali, nelle gerarchie, nella difficoltà di essere caritatevole), pieno di desiderio che gli altri non abbiano quello che lui ha avuto. "E l'infinita vanità del tutto".

Ora io sono a contrapporre due pensieri potenti: uno assolutamente nel nulla, l'altro assolutamente nel tutto. E sono quelli di Leopardi e di Rosmini. Scrive Rosmini: "E in tal modo avviene che l'uman genere non si stia contento a quella bellezza che dall'ideale intellettuale, eziandio che immenso, inesauribile, gli è dato di ricavare...". L'opposto del pensiero statico e plumbeo di A se stesso di Leopardi. È il rapporto fra la pienezza del valore estetico e l'ideale morale. "Come l'ideale naturale è il principio dell'intellettuale, così il morale ne è il fine e l'assoluto compimento. Di che avviene, che se l'umanità si può dilettare alcun tempo di ciò che presta di bello l'ideale naturale, ella però non può in esso continuamente riposarsi; ma quasi dal suo stesso peso verso l'intellettuale sia tratta; e questo stesso non sia che uno stato di passaggio, dal quale pure dipartendosi, pervenga in fine a quello stabile e sempre ricercato diletto che solo dalla percezione e dalla imitazione dell'ideale morale le proviene. Perciocché l'elemento morale è quel punto unico, semplicissimo, nel quale s'appoggia come in solida base l'universo, e sul quale truova sostegno la gran leva che ne muove le parti; è quel principio altissimo che non già molte delle cose esistenti, ma tutte raccoglie sotto di sé e congrega ad immensa unità: quel principio, onde la bellezza piena ed assoluta all'umana mente rifulge".

La creazione dell'artista riproduce la creazione di Dio e, da questo punto di vista, il pensiero di Rosmini è un pensiero di grande speranza. Ed è quello che lo fa guardare l'opera di Raffaello. Raffaello è il riferimento estetico più alto rispetto ai suoi contemporanei, anche rispetto a Canova. La sua teoria morale ed estetica del classicismo, all'insegna di Raffaello, è la prosecuzione del tema del Bellori, del bello ideale, rigida etichetta di perfezione formale ed espressione di un compiuto equilibrio raggiunto dalla forma attraverso la grazia naturale che presuppone la grazia divina. Ecco, ciò che si vede in Raffaello. In una pagina notevole Rosmini mette a confronto due grandi classicisti, Raffaello e Poussin: il primo legato al mondo cristiano e alla bellezza ideale dei valori della nostra religione, il secondo che si volge a una sorta di neopaganesimo e guarda come modello il mondo classico. Ma essendo le due diverse opzioni, di Raffaello e di Poussin, così simili nel bello ideale che rappresentano, di fonte storica diversa, non è così facile dire ciò che non ho trovato in nessun critico, se non in Rosmini: "La differenza che passa tra Raffaello e Poussin è che uno dipinge Alessandro vero, l'altro un Alessandro sulla scena.

Questo deve essere il pregio delle buone novelle dallo stile raffaellesco: dipingere i casi altrui come sono, senza il minimo idealismo".

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