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L’elettrico manda al tappeto l’industria della Germania

In Germania la transizione all’auto elettrica benedetta dall’Unione europea sta provocando i primi seri contraccolpi. Ovvero, una nuova ondata di tagli ai posti di lavoro

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L’auto green ci sta portando a sbattere prima ancora di iniziare la propria corsa. E il rischio è che a farsi male sia un intero settore, peraltro già messo a dura prova. I più concreti segnali di pericolo, in questo caso, arrivano dalla vicina Germania, dove la transizione all’auto elettrica benedetta dall’Unione europea sta provocando i primi seri contraccolpi. Ovvero, una nuova ondata di tagli ai posti di lavoro.

È delle scorse ore la notizia che Bosch, il più grande fornitore automobilistico al mondo, intende licenziare fino a 1.200 dipendenti nella sua divisione di sviluppo software entro la fine del 2026. Annunciando i tagli, la multinazionale ha citato proprio gli elevati costi legati alla transizione al motore elettrico, gravati dall’inflazione e dall’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia. Ma siccome l’Europa ha stabilito che dal 2035 non si potranno più vendere nuove auto con motori endotermici (a benzina o diesel), ormai invertire la rotta non è più possibile. Così, per adeguarsi all’eco-diktat si sacrificano le persone. Per salvare l’ambiente (questa è infatti la convinzione), si azzoppa un asset che rappresenta quasi l’8% del Pil europeo.

Le ripercussioni negative della costosa transizione all’elettrico hanno colpito anche la multinazionale tedesca ZF Friedrichshafen, produttrice di componenti per l'industria dei trasporti. L’azienda, che a livello globale impiega circa 165mila persone, ha fatto sapere che 12mila posti di lavoro potrebbero essere persi nello «scenario peggiore». Per protestare contro la drammatica ipotesi, mercoledì scorso 3mila dipendenti sono scesi in strada a Friedrichshafen, nel sud della Germania, dove l'azienda ha la sua sede. «Sappiamo che la sola trasformazione verso la mobilità elettrica costerà posti di lavoro», ha ammesso la multinazionale in una nota riportata dal Financial Times, spiegando che alcuni componenti dei veicoli elettrici richiedono la metà della manodopera rispetto all’equivalente dei motori a combustione.

E in Italia la situazione non è tanto diversa: dalla Gkn di Campi Bisenzio alla Wärtsilä di Trieste; dalla Continental di Livorno alla Bosch di Modugno, passando per la Magneti Marelli di Crevalcore, diverse fabbriche di motori e componentistica auto sono a rischio chiusura.

In questa situazione d’emergenza, governo e centrodestra stanno cercando di fare la loro parte soprattutto in Europa, dove avevano a più riprese espresso una contrarietà all’oltranzismo sulla transizione energetica. «Quanto sta accadendo non è che la conseguenza delle politiche green estremiste di questa Ue, che oltre a essere inefficaci sul piano ambientale, perché i grandi inquinatori come la Cina continuano ad agire indisturbati, arrecano gravi danni a imprese, lavoratori e famiglie», ribadisce al Giornale l’eurodeputato leghista Marco Zanni. Sul fronte opposto ci sono le contraddizioni di sinistra e sindacati, che hanno sempre tifato per l’elettrico, salvo poi fare i conti con l’altra faccia della medaglia. E nemmeno ora, di fronte alla crisi del settore, i progressisti cambiano idea. Piuttosto, come ha fatto Maurizio Landini, chiedono un «intervento pubblico» per gestire il cambiamento.

Così, a rimetterci siamo sempre noi.

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