Carlo Dolci, la pittura come contemplazione

Fra bellezza e devozione, le opere del maestro fiorentino cristallizzano le forme. Permeandole di mistica fragilità

diPittore ripetitivo e sublime, Carlo Dolci sarebbe stato il più grande autore di natura morta, genere al quale si è applicato assai raramente. In un certo senso la sua personalità, estranea a ogni capriccio e applicata a soggetti prevalentemente se non esclusivamente devozionali, è speculare a quella dell'Arcimboldi che, con analoga fissità e precisione, si applicò al sublime virtuosismo di trasformare in volti trionfi di frutta e verdura. In entrambi la restituzione della realtà è così diretta e gelida da cristallizzare le forme, renderle come pietre dure. È proprio nell'alveo di questa tradizione tipicamente fiorentina, l'Opificio, appunto, che esce la visione di Carlo Dolci. Si osservi la Madonna dei gigli ora nella Staatsgalerie di Schleißheim, un'opera di stupefacente perfezione nella quale, più che altrove, all'armonia nelle figure, corrisponde una Natura morta di fiori e di ricami degna del più grande specialista. Più naturale di così non si può essere, in una insuperata equivalenza fiori-volti, petali-carne. Che in realtà sembrano appartenere a una dimensione sovrannaturale, non destinata a sfiorire, perennemente intatta.

Che a questa condizione aspirasse il Dolci non è confermato solo da altre analoghe endiadi (Angelo Giglio, ad esempio, nella Annunciazione degli Uffizi) ma anche dalla meravigliosa e inscindibile cornice della cosiddetta Madonna delle pietre dure su disegno di Giovanni Battista Foggini. Anche la pittura di Dolci, smaltata e incorruttibile, è di pietra dura. Nessuna invenzione, nessuna azione. Nessuna volontà di cambiare schema o modelli rispetto a un insuperato Rinascimento. Inimmaginabile una rivoluzione compositiva come quella della Conversione di Saulo di Caravaggio. Nelle tele del Dolci non c'è storia né racconto. Sandro Bellesi, curatore, con Anna Bisceglia, della esauriente mostra nella sede naturale di Palazzo Pitti a Firenze, ne indica merito e limiti: «Dolci, unico nel suo genere tra i toscani del tempo nell'esecuzione di dipinti “preziosi” e “diligenti” nei quali tutto era “imitato in modo sì stupendo (e vero) che l'occhio ne rimanesse ingannato”, non si distinse in effetti, per l'ideazione di composizioni complesse e articolate».

Le teorie di Santi e di Madonne che, a partire dal sublime San Sebastiano (in prima tela) della Galleria Corsini, dipinto a vent'anni, con una superficie di ceramica che perfeziona la pittura senza errori di Andrea del Sarto, cui si ispira, mentre estingue ogni vita e ogni respiro, trasforma la carne in alabastro e le stoffe in porfido e serpentino. Soltanto una roccia con il muschio, come nel San Giovanni Evangelista di Berlino, resta roccia e muschio, con un virtuosismo senza pari. Dolci sembra bruciare l'aria intorno alle sue immagini, per porle sotto vuoto, come entro una campana di vetro che ne evidenzi la fragilità. E anche quando alla loro miracolosa integrità si sovrapponga un anelito di vero, come nel giovanilissimo (e unico) Ritratto di Fra' Ainolfo de Bardi o nel picaresco Diogene con la lanterna nella Galleria palatina, o nel San Simone della stessa Galleria, si ha la sensazione di una fragilità di esecuzione e di spirito che possa fare evaporare d'improvviso l'immagine.

Il realismo, come il travaglio dell'umanità, non conviene al Dolci, non gli appartiene, anche quando si applichi, nelle piccole dimensioni, a un soggetto complesso e concettoso come il San Domenico penitente e orante per le anime del Purgatorio (sempre a Palazzo Pitti). C'è di tutto nella penombra di quegli anfratti, nella grotta in cui il Santo si mortifica, senza dramma e dolore, ma il pittore sembra distratto e attratto dal particolare della tunica bianca e della veste nera posate su una roccia sulla destra. Un episodio marginale nel quale sembra agitarsi tutta l'ansia di perfezione e il pensiero turbato non dal racconto e non dalla esortazione alla fede e alla penitenza, ma da un mistero che sta nascosto nelle cose e nei particolari.

Carlo Dolci sembra non essere soltanto un pittore senza tempo, in una singolare consonanza con altri maestri che fissano la perfezione in un bello ideale che non vuole essere infastidito dalla cronaca e dalla realtà - penso a Scipione Pulzone, a Moncalvo, a Sassoferrato, e prima ancora a Beato Angelico e a Bronzino - ma sembra anche non avere evoluzione stilistica. Così lo troviamo impeccabile e immutabile per più di trent'anni dalla ricordata Madonna dei gigli verso il 1650, ai mirabili Emblemi di Andrea Dolci, il figlio divenuto membro dell'Accademia Partenia. I due emblemi mostrano, in una superficie di porcellana, lo spirito emozionato e turbato davanti alla natura, come in una prefigurazione di Philipp Otto Runge. Si nasconde un romantico nel classicissimo Carlo Dolci? Eppure il processo di cristallizzazione avanza. E sempre più le sue sante, all'apparenza espressive e patetiche, sono vere e proprie nature morte. Ecco la Maddalena degli Uffizi, e la Carità impietrita, di Palazzo degli Alberti a Prato, sorella della Sincerità del Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Ed ecco Gesù con una ghirlanda di fiori contro un fondo azzurro che è tutto meno che cielo: è un altro modo di essere del fondo oro. E l'opera giudicata tra le più belle e compiute, la Salomè con la testa del Battista di Windsor, regina nella collezione della Regina, e prima Salomè che tiene il vassoio con la testa del Battista come estraneo a sé. Anzi, ostenta di non volerlo vedere. È altrove. Dolci, mentre pietrifica le sue immagini, non consente pathos , rende elegante anche la morte. La violenza degli uomini e delle cose è attutita da una inevitabile gentilezza. Difficile immaginare un Davide più disarmato e meno cruento del suo, ora alla Pinacoteca di Brera: il giovane accarezza la testa del nemico come un animale domestico; e non mostra, diversamente da Tanzio da Varallo o da Caravaggio, né orgoglio né pentimento.

Carlo Dolci pensa da solo, restando nel suo studio a Firenze come nella cella di un convento, salvo che per un viaggio di pochi mesi a Innsbruck nel 1672 per ritrarre Claudia Felicita, figlia dell'Arciduca Fernando Carlo d'Asburgo e di Anna de' Medici, in veste di Galla Placidia che sostituisce la croce agli idoli (in primo piano una Venere travestita da Diana per l'estrema pudicizia dell'artista). Negli anni tardi, pur afflitto da disturbi depressivi, ci consegna alcuni capolavori. Come il meraviglioso San Giovannino dormiente di Palazzo Pitti, dove la devozione trasfigura in pura bellezza rigenerando quell'idolo pagano umiliato nella Claudia Felicita; l' Angelo custode per il Duomo di Prato, composizione complessa e sbilanciata, ma mirabile nella parte inferiore, dove il giovane fanciullo è diviso tra il richiamo delle cose terrene e l'aspirazione alle cose supreme, e infine l' Allegoria della pazienza , recentemente riapparsa, dove la purezza formale e la trasfigurazione della materia in essenza, con la trasparenza e la fragilità di un vetro, segnano il punto di congiunzione tra Guido Cagnacci, Pompeo Batoni e Bouguereau. Siamo nel 1677. Il pittore, che si è mostrato, nel suo autoritratto, con il volto tormentato, per la prima volta in quel realismo sempre evitato, se non nei ritratti inglesi di questi ultimi anni, Thomas Baines e John Finch, ci guarda triste, come per congedarsi, già nel 1674.

Da quel minuzioso disegnatore che si era rivelato nella miniatura che tiene in mano mentre dipinge con meticolosa attenzione, inforcati gli occhiali, il Dolci, che aveva maturato una pittura incorruttibile e vissuto una vita ascetica, ritirata, concependo il suo lavoro come un dono di Dio per servirlo degnamente, ha perso certezza in sé prima che in Dio. Gli fu fatale l'incontro con Luca Giordano, arrivato a Firenze nel 1682 per affrescare la cupola della Cappella Corsini nella Chiesa del Carmine. È noto che per la velocità di esecuzione, esattamente all'opposto del Dolci, Giordano era chiamato «Luca fa presto». E così disse al Dolci, scherzosamente, e con benevola ironia: «Se tu impieghi tanto tempo a condurre tue opere, tanto è lontano, che io pensi, che tu sia per mettere insieme i 150 mila scudi, che ha procacciato a me il mio pennello, che io credo al certo che tu ti morrai di fame».

Dolci entrò in crisi. E Baldinucci osserva: «Carlino, allora, la cui fantasia era piena di torbidi pensieri, cominciò a fare strane cambiazioni e, con una falsa cognizione di se stesso, propria degli estremamente malinconici, si fissò nel concetto che non fosse al mondo uomo professore più dappoco di lui». Un trauma, un turbamento. Nel confronto fra l'inutile «impareggiabile diligenza» e la «maravigliosa speditezza del pennello». Così «Carlo, in brevi giorni, si ridusse smunto e macilento fino all'ultimo segno, e non solamente proferiva parola, ma né tampoco se gli potèa fare aprire bocca per porgergli il necessario alimento». Infine gli morì la moglie «che egli aveva più che gli occhi propri amata». E poi il 17 gennaio del 1686 morì anche lui.

Per quello che ci riguarda, possiamo ripetere ciò che soleva dire il pittore Matteo Rosselli al Baldinucci che «in materia di pittura, men bello sarebbe stato per l'avvenire il mondo se no avesse avuto un solo Carlino in ogni secolo».

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