Politica

Così l’Alta Corte ha preso in giro il Capo dello Stato

Il presidente Napolitano è certo un uomo leale. Il suo problema - ed è diventato un nostro problema - è diverso: ci mette anni ad ammettere che quelli intorno a lui lo sono un po’ meno. Per la questione dell’invasione dell’Ungheria ci sono voluti circa venticinque anni. Poi riconobbe che fidarsi dei sovietici fu uno sbaglio, erano stati piuttosto sleali. Sarà più veloce stavolta con la Corte Costituzionale? La questione non è così grave, non ci sono di mezzo carri armati che schiacciano il popolo con la benedizione di Togliatti e Ingrao, ma il tentativo di impacchettare un presidente del Consiglio è un altro modo per far fuori la sovranità degli italiani.
La mia tesi è quella sopra esposta. Non posso infatti credere che il presidente della Repubblica si sia prestato scientemente a una turlupinatura. Ragiono per tabulas, e confermo: l’ospite quirinalizio era certo della bontà del Lodo Alfano. Ma è stato preso per il suo pallido naso dalla Corte Costituzionale, come fece Stavrogin nei Demoni con l’alto funzionario che sosteneva che «non si faceva menare per il naso», lui. Invece accadde. Così, in buona fede, il capo dello Stato - per la proprietà transitiva delle bugie - ha consegnato alla presa per i fondelli il Parlamento e il governo. Non è questione di discorsi privati o conciliaboli riservati. Quelli non li conosco e non ne voglio sapere. Ma di pura e semplice lettura dei testi. Si dice: il presidente della Repubblica parla attraverso gli atti. Cioè le firme. Qui ne abbiamo due interessanti da decifrare: quella che autorizzò il decreto del governo, detto Lodo Alfano, a essere portato all’esame delle Camere; la seconda servì a promulgare il medesimo. Non dobbiamo neanche sforzarci. Ci sono i comunicati del Quirinale a spiegare. Non li scrive di pugno il presidente, ma - si dice come a proposito di Dio e della Bibbia - li ispira. E ce ne sono un paio molto ispirati. Dicono assai di più dell’indispensabile, aggiungono, sovrabbondano. Sono un mondo di idee, sentimenti, certezze.
Il 2 luglio viene diffuso questo testo: «Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi autorizzato la presentazione alle Camere del disegno di legge in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato». La domanda è: perché, viste le polemiche e la bocciatura di analogo lodo (lo Schifani)? Risposta: «A un primo esame - quale compete al capo dello Stato in questa fase - il disegno di legge approvato il 27 giugno dal Consiglio dei ministri è risultato corrispondere ai rilievi formulati in quella sentenza. La Corte, infatti, non sancì che la norma di sospensione di quei processi dovesse essere adottata con legge costituzionale. Giudicò inoltre “un interesse apprezzabile” la tutela del bene costituito dalla “assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche”».
Un primo esame. Giusto: primo esame. Ma non vuol dire: a occhio e croce. Non vuol dire superficialmente. Il presidente si è messo nei panni dei suoi interlocutori, spiega come fare per passare l’esame dai giudici: bisogna applicare i contenuti della sentenza precedente. Il Parlamento ha il via libera per discutere, infine votare. Tre settimane in cui in novecento tra deputati e senatori si battono, litigano, votano. Il governo si spende in aula. Passano ventuno giorni. Un’eternità per il piccolo mondo che sta intorno ai Palazzi barocchi e rinascimentali, dove non si fa altro che presentare libri, mostre, e ci sono tutte le cariche più o meno impennacchiate. Parlavano di calciomercato? Lui ri-firma, promulga e spiega. È il 23 luglio. Ripete le stesse parole, ha l’aria persino seccata di dover ripetere la lezione: «Al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stata sottoposta oggi, per la promulgazione, la legge in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato. Già il 2 luglio...». E via: tale e quale il comunicato precedente. Infine, benedizione: «Non essendo intervenute, in sede parlamentare, modifiche all’impianto del provvedimento, (...) il Presidente della Repubblica ha ritenuto, sulla base del medesimo riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale, di procedere alla promulgazione della legge».
Ovvio che non poteva scrivere: vi garantisco che il lodo passa. Ma carta canta. Spiega come sia impossibile, proprio impossibile che occorra una riforma della Costituzione. Si fida dei quindici giudici. E loro? Zitti e mosca. Che gioco è questo tra organi costituzionali? Qui ce ne sono quattro. Parlamento, governo, capo dello Stato, Corte costituzionale. Si spera collaborino. La convivenza civile, il buon andamento della vita comune prescrive infatti ci sia «leale collaborazione tra istituzioni dello Stato». Insieme prevede anche distinte responsabilità, ovvio. Ora che cosa si deve pensare di una Corte costituzionale la quale lascia credere al capo dello Stato - non un cretino, è uomo assai colto - il falso: e cioè che non c’è bisogno di cambiare la Costituzione, ma bastava la legge ordinaria? Io non mi fidavo, e infatti ben prima della promulgazione ho presentato una proposta di riforma della Costituzione. La pensavo come il Berlusca. Non passa. La Corte inganna. E frega anche il Napolitano.
Tant’è vero che il capo dello Stato ci casca. Ingenuo lui, ingenuo il Parlamento. Credono alla sentenza: essa dice due più due uguale quattro. E Napolitano constata: a un primo esame due più due fa quattro.

Possibile che prima del 2 luglio e poi in quelle tre settimane qualcuno non abbia sentito il bisogno di chiedergli udienza e di spiegargli che c’era una trappola sotto il tappeto? E che la sentenza del 2004 era una sentenza acchiappa gonzi? Magari se i giudici non nascondevano mine antiuomo nella boscaglia delle loro sentenze, erano più leali.

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