Cronaca internazionale

Viaggio nell'Albania che accoglierà gli hotspot italiani. "Siamo sicuri: l'intesa funzionerà"

Nel porto di Shengjin, a 70 chilometri da Tirana, approderanno le navi della Marina e della Finanza coi migranti dirottati all'estero. "Sogniamo la Ue"

Il porto di Shengjin, dove è previsto lo sbarco dei migranti
Il porto di Shengjin, dove è previsto lo sbarco dei migranti

«Ma quale Guantanamo europea, l'accordo tra Italia e Albania è win-win e funzionerà perché a questo Paese servono più immigrati». A Shengjin, 70 km da Tirana e un pugno di miglia marine in più da Bari, un profugo afghano in vena di chiacchiere si ferma a parlare in inglese sotto le insegne del Rafaelo resort che lo ospita. È arrivato qui nel 2021, in fuga dal suo Paese prima che l'ultimo americano per cui lavorava se ne andasse da Kabul. Qui d'estate ci vengono kosovari e albanesi di ritorno, racconta lui che vive lì con moglie e due piccoletti con gli occhi vispi. Siamo a pochi minuti a piedi dal porto di Shengjin, luogo che ci indica mentre gioca a pallavolo sulla spiaggia. All'ingresso una sbarra. Ci avviciniamo, bocche cucite, non si passa. Ci spostiamo nella collinetta dietro il porto, tra pini e melograni cresciuti in mezzo ai rottami di due camion sovietici e di ciò che resta di alcuni edifici militari. Ci andiamo in macchina, noleggiata poco lontano da un venditore più interessato alle sue galline che alle auto, scortati da un taciturno albanese suo amico che si è offerto di accompagnarci.

È questo il luogo individuato dall'accordo tra Giorgia Meloni e il premier albanese Edi Rama, è qui che sbarcheranno le navi italiane della Marina e della Finanza con il loro carico di disperati, è qui che nella primavera del 2024 questa zona sarà un'enclave italiana, con personale delle nostre forze dell'ordine che si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione di chi cerca asilo in Europa e che poi sarà trasferito all'ex aeroporto militare di Gjadër, poco lontano da qui. «Vi accompagno io perché è una zona militare», ci dice il nostro Cicerone, come gli conferma il soldato in mimetica che ci ferma al cancello, sotto la scritta «Ndal! Zone Ushtarake». Sulla strada qualche bandiera americana, un vessillo della Nato, niente che ricordi le vestigia comuniste. Quel regime è un ricordo, brutto e lontano. «Abbiamo vissuto il comunismo. Una cosa è certa: potrebbe tornare ovunque nell'Est, ma non qui», ci dice sorridendo il benzinaio con cui ci lamentiamo per il prezzo del diesel, più di due euro al litro al cambio con lek albanese. L'aeroporto militare è in disuso dagli anni Novanta, ricorda un contadino che pascola le sue tre vacche poco lontano: «Da qui non vola più nulla da allora», dice. Ma il nostro angelo custode, un ex militare cui stiamo simpatici, scuote la testa. «Non è vero», sorride ma non aggiunge altro. Intorno pochissime case («Durante il comunismo era vietato persino avvicinarsi a chilometri di distanza da qui», ricorda l'uomo, che dice di chiamarsi Ruci), il problema casomai «sarà far digerire l'hotspot alla popolazione della zona», qui a maggioranza cattolica.

L'obiettivo dell'accordo Roma-Tirana è spostare fino a tremila anime dall'Italia all'Albania, con un flusso annuale quantificato «in 35-40mila persone» desiderose di entrare legittimamente in Europa, dalla porta principale. Come sta facendo Tirana, in un percorso complesso di almeno cinque, sette anni, comunque meno di quello della nazionale di calcio che ha già il biglietto in tasca per gli Europei 2024. «Chi in Italia si indigna, come la sinistra italiana, dimentica che nel 2014 Frontex aveva individuato tre hotspot in Albania, al confine tra Turchia e Bulgaria e tra Grecia, Albania e Macedonia per la registrazione dei migranti», ci ricorda Ilir Kulla, eminenza grigia della politica albanese, mentre ci mostra lo sviluppo della zona est di Tirana, dove vive con moglie e figlia. Una specie di Olgiata in salsa arbëreshë, con strade non sempre all'altezza dei residence dai nomi mirabolanti tipo Rolling Hill, in una città europea e digitale guidata oggi da Erion Veliaj, trasformata in dieci anni come nessun'altra. L'Albania sta studiando per diventare ricca, e si percepisce dal traffico che ci paralizza per ore. Le contraddizioni di un Paese uscito in frantumi dal crollo del comunismo si vedono tutte, tra casermoni dal sapore sovietico e palazzoni nuovi di pacca firmati da architetti italiani. Ma si sente tanta voglia di crescere. Grazie all'accordo sui migranti arrivato ieri al Parlamento albanese e scritto «in osservanza delle normative italiane, comunitarie e internazionali», assicura uno degli sherpa che ha preparato l'intesa, i riflettori su Tirana si sono riaccesi. Prima della Meloni, che in Albania si è fermata sette giorni, era venuto Giuseppe Conte dopo il terremoto che ha ferito i Balcani nel 2019. «Quando ha fatto capire che non si sarebbe fermato neanche una notte, la sua visita di Stato è durata sette minuti e mezzo, altro che sette giorni», ci rivela una fonte presente all'incontro. «Reddito minimo (di cittadinanza, ndr)? Qui lo Stato non ti dà niente e non te l'aspetti», ci dice un barista a una domanda sui Cinque stelle, in un italiano imparato al Tg1 che farebbe invidia a qualche nostro connazionale.

Siamo i loro fratelli maggiori, da noi ci sono 700mila albanesi, in Albania ci sono approssimativamente 2.800 piccole e medie imprese italiane, moltissimi nostri connazionali sono venuti qui a lavorare, a svernare ma anche a studiare. «È un trend crescente», ci conferma l'ambasciatore italiano a Tirana che ci riceve. «Avere un partner come l'Albania è cruciale, soprattutto dopo la guerra in Ucraina - è il ragionamento di Fabrizio Bucci, da quattro anni sull'Adriatico dopo Washington e Bruxelles - perché i Balcani sono terra di confine. Una faglia ancora più stretta dopo il conflitto tra Mosca e Kiev». L'accordo sull'immigrazione arriva dopo una relazione di lungo corso con l'Albania in moltissimi settori, dalla giustizia, con task force incrociate di una decina di Procure italiane, ai trasporti e all'energia.

Nei Balcani che ribollono per la troppa Storia che producono (lo diceva sempre Winston Churchill) ci sono tanti fili da riannodare, con la Macedonia del Nord ma anche con il Kosovo, altri fratelli minori per l'Albania, cuscinetto diplomatico ideale con la Serbia e la Turchia, tanto che anche l'Arabia Saudita corteggia e lusinga il premier Rama, a capo del primo Paese musulmano a entrare nell'Unione europea. Qualche mese fa alla Chatham House il primo ministro si lamentò quando pensava di essere off the record per «l'Europa ipercritica con noi, anche se abbiamo fatto i compiti. Ma a loro non basta, perché anche la Ue ha i suoi problemi, è una federazione di ego». A Tirana Rama, ieri inavvicinabile per il lutto del presidente della Repubblica albanese Bajram Begaj che ha perso la mamma, non piace a tutti. Qualcuno ricorda quando pubblicò il suo cellulare a caccia di whistleblower che denunciassero la corruzione. Uno di loro ricevette una chiamata del premier alle 3 del mattino, alle 6.45 Rama era al suo bar a prendere il caffè circondato dai burocrati che avevano rallentato una licenza e che lui aveva precettato. Un personaggio frizzante, alla Matteo Renzi (con cui va d'accordissimo) che alla destra albanese non piace affatto. «Sulla corruzione e i diritti la lista di cose da fare è lunga. Non è sbagliato aiutare l'Italia, devo moltissimo al vostro Paese dove sono arrivato nel 1991 ma serve una soluzione europea. Se il memorandum prevede un centro di detenzione non sono d'accordo», ci dice il parlamentare d'opposizione albanese Agron Shehaj, non certo tenero con Rama: «È tutt'altro che di sinistra, è un piccolo despota balcanico che si è venduto benissimo. Gli albanesi scappano dalla corruzione, sono 50mila all'anno, e Rama vuole essere il Ruanda d'Europa?», dice il conservatore, ricordando la fresca bocciatura del piano del premier inglese Rishi Sunak sui trasferimenti in Africa. «La manodopera è fondamentale per noi, ecco perché servono nuovi immigrati», ci spiega invece Kulla, secondo cui il problema sono i salari e i lavori che i giovani albanesi non vogliono più fare, tanto che il governo ha aumentato gli stipendi del pubblico impiego. «Vanno in Germania e in Inghilterra, i nostri medici e infermieri sono richiestissimi», qui invece servono operai e domestici per i nuovi oligarchi. E per aiutare l'Albania a entrare in un'Europa che guarderà a Ovest e a Est.

Come l'aquila, simbolo della bandiera albanese.

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