Cronache

"Il bodyguard si è messo i guanti per massacrare Galvagno"

Il racconto del testimone dell'omicidio fuori da una discoteca di Roma: "Lo colpivano al volto, si sono accaniti come belve"

"Il bodyguard si è messo i guanti per massacrare Galvagno"

"Si accanivano come belve". È ancora sconvolto il supertestimone che ha assistito al pestaggio mortale di Giuseppe Galvagno, il 50enne trovato morto sabato notte fuori dalla discoteca San Salvador di Roma.

"Ero nel piazzale. Ho visto tre buttafuori uscire con Galvagno, già gli erano addosso. Poi sono arrivati il quarto e il quinto", ha raccontato prima ai carabinieri - permettendo così agli inquirenti di fermare cinque persone - e poi al Messaggero, "Lo picchiavano sotto gli occhi della fidanzata, di Barbara, che cercava di portarlo via. Lui era ubriaco come tanti altri là dentro. Voleva rientrare a tutti i costi, a un certo punto ha dato pure uno spintone a Barbara dicendole lasciami stare. Allora uno dei bodyguard, il più giovane, quello di trent' anni, si è infilato persino i guanti per assestargli un cazzottone in piena faccia. Mentre lui strillava e inveiva contro di loro, lo colpivano al volto. Ho visto l' uomo che veniva scaraventato su una Smart bianca parcheggiata, sulla quale dopo ho notato delle macchie di sangue".

Secondo l'uomo, un meccanico 51enne, Galvagno non li aveva provocati: "È caduto a terra una prima volta, era una maschera di sangue per quel colpo, si è rialzato e ha detto solamente: Ma che m' avete fatto, bastardi. E allora loro si sono accaniti come belve. Appena Giuseppe si è rialzato, uno di loro lo ha afferrato per il collo, lo tirava forte mentre gli altri ancora lo pestavano con calci e pugni. Barbara era presente. Dopo le hanno detto di andare a prendere la macchina, portatelo via dicevano, volevano completare l'opera".

I cinque si sarebbero accaniti anche dopo che Galvagno era steso a terra, agonizzante e decisamente inoffensivo: "Quando tutto sembrava finito, prima di rientrare in discoteca, Fabio gli ha sferrato quel calcione - forte come "un calcio di rigore" ha detto agli inquirenti - così inutile, gratuito. A che serviva? Me lo chiedo di continuo".

A quel punto l'uomo ha chiamato i soccorsi. "Non lo ha fatto nessuno dello staff", accusa, "Nessuno che era nel piazzale si è mosso o si è fatto avanti per difenderlo o dopo per testimoniare, eppure c' era tanta gente. Mentre l' ambulanza era lì e Barbara cercava di fare la respirazione bocca a bocca al suo compagno, io sono tornato dentro. Mi sono diretto verso Fabio e gli ho gridato: Quello è morto, ti rendi conto. E sa che mi ha risposto? Non me ne frega niente, non so' affari miei. Sotto la sua scarpa hanno trovato ancora i capelli e il sangue di Galvagno. Ma lui non si è preoccupato di niente. Sono tutti in carcere adesso, gli sta bene, devono pagare. Quei buttafuori erano habitué, degli esagitati".

Resta l'amarezza di una morte che poteva essere evitata: "Quello che dico io è: perché l' hanno pestato di botte? A che serviva? Dovevano solo portarlo fuori e poi chiamare la polizia. È stato surreale. Lo sa quando l' ambulanza è andata via, che cosa è venuto a dirmi il proprietario del locale, Giancarlo? Che qualcuno diceva di avere visto la macchina di Barbara mettere sotto Galvagno. Io gli ho subito risposto: Ma che mi stai a di'. Non si inventassero niente, io ho visto quel matto di Fabio dargli il calcio, io ho chiamato i soccorsi. Lui allora ha abbassato la testa ed è stato zitto. Barbara si era avvicinata a lui con la macchina, ma non lo ha sfiorato minimamente. È scesa, ha provato a chiamarlo e a svegliarlo, ma niente.

Spero che lo chiudano per sempre quel locale".

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