Politica

Caro Minniti, non siamo cattivi maestri

Chi è contro lo ius soli non va bollato come sovversivo. Lo Stato non è ancora pronto a sostenerne l'impatto

Caro Minniti, non siamo cattivi maestri

Gentile ministro Marco Minniti, come lei ben sa anche all'interno dell'area di centrodestra e di destra molti guardano a lei come ad un politico onesto e pragmatico poco incline all'ideologia e alle contrapposizioni. Un politico più propenso a perseguire l'interesse nazionale che non le sterili e inutili divisioni in seno al Paese. Proprio per questo ci sorprendono i toni e i modi del suo intervento sullo ius soli. In quell'intervento liquida come «cattivi maestri che non vanno seguiti» coloro che legittimamente esprimono perplessità o manifestano contrarietà rispetto a quel progetto di legge. Come lei ben sa il termine «cattivi maestri» ha un significato politicamente pesante. Ai tempi delle Brigate rosse quell'espressione indicava chi ispirava od orientava la vasta area di militanti che, pur non aderendo alle azioni armate dei brigatisti, ne condivideva, parzialmente o in toto, la scelta ideologica. Oggi il termine continua a venir utilizzato per indicare quanti nell'ambito del fondamentalismo islamico esercitano quella propaganda dell'odio che contribuisce a regalare sostenitori e militanti alle fazioni jihadiste. Chi oggi si contrappone allo ius soli è ben lungi dal voler sovvertire Stato e istituzioni. Chi critica tempi e modi di quel provvedimento ritiene piuttosto che Stato ed istituzioni debbano essere più forti e strutturati al fine di sopportarne l'eventuale entrata in vigore. Senza uno Stato forte, senza una scuola in grado d'instillare nei figli degli stranieri l'orgoglio d'appartenere a questa Nazione e a questa Patria, condividendone non solo la bandiera e la carta d'identità, ma anche tradizioni, leggi e ordinamenti sociali sarà difficile arrivare a quell'integrazione che lei giustamente indica come il miglior antidoto al terrorismo. Ma nell'Italia di oggi esiste veramente tutto questo? Mentre il governo di cui fa parte si accinge a varare un provvedimento che garantirà la cittadinanza a 900mila figli di stranieri, per poi successivamente italianizzarne circa 60mila ogni anno, l'Italia fa i conti con i problemi dell'istituzione scuola. All'interno di quell'istituzione atti leciti, se non doverosi, come cantare l'inno nazionale, esibire la bandiera, festeggiare il Natale, allestire il presepe vengono spesso liquidati come atti «divisivi» anziché come sacrosante espressioni dell'identità nazionale. Con un sistema scuola incapace di trasmettere persino agli alunni italiani il senso del Paese e della Nazione lei ritiene veramente si possano forgiare ed integrare dei «nuovi italiani» degni di questo nome? Converrà poi che dovendo attribuire 900mila cittadinanze nell'immediato e 600mila nei prossimi dieci anni sarebbe anche logico chiedersi quali siano i parametri per valutare la possibile integrazione dei «nuovi italiani» nel corpo nazionale.

È veramente pensabile che la conclusione di un ciclo scolastico come quello elementare, al termine del quale anche alunni italiani provenienti dai ceti più disagiati manifestano difficoltà linguistiche, sia sufficiente a garantire una corretta integrazione? C'è da chiedersi poi se il nostro sistema scolastico e sociale sia più strutturato di quello di Paesi come Gran Bretagna e Francia. In quei Paesi, seppur tra mille contraddizioni, il senso d'identità nazionale si è sempre manifestato con assai più evidenza e orgoglio che in Italia. Ma neppure quei sistemi, come dimostra il tragico fenomeno delle seconde e terze generazioni, sono riusciti a garantire un'integrazione in grado di arginare il terrorismo. Converrà che di fronte a queste premesse esprimere qualche dubbio sull'opportunità d'introdurre in tutta fretta lo ius soli sia non solo lecito, ma doveroso.

Anche perché tra dieci anni l'accusa di «cattivo maestro» rischia di ricadere sulle teste di quanti oggi scommettono su un'integrazione tanto facile quanto automatica.

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