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Cina da "preda" a "predatore" nel giro di due Olimpiadi

I Giochi del 2008 furono un’illusione: da predatori siamo preda della Cina. L’obiettivo globale del regime: sostituirsi alle libertà occidentali

Cina da "preda" a "predatore" nel giro di due Olimpiadi

L'estate era solo un inganno, con le speranze che si sono incancrenite in fretta, troppo avidi, noi, troppo ingenui, troppo miopi per vedere quello che stava lì, davanti a tutti. È che c'è sempre un alibi per relegare la miseria di libertà nel sottoscala delle cose inutili. Cosa vuoi che sia? Un compromesso si trova, soprattutto quando si parla di sport e sotto lo sport ci sono gli affari. È lo spirito olimpico che conta. Il potere va bene, ma la politica, come radice umana, quella deve restare fuori. E così sia.

Pechino 2008, come una festa, cinque cerchi e la Cina apre le porte. È la grande scommessa, un mercato così immenso che non fai neppure in tempo a contarlo. È la fiera dell'Est. Si compra e si vende. Non c'è nulla di più ipnotico della globalizzazione. Il futuro è una giostra e Beijing non è mai stata così vicina. Il simbolo è un uomo stilizzato in vernice bianca in campo rosso. Si muove senza sapere dove andare. Le mascotte sono cinque Fuwa, bambole della fortuna. La Cina è la regina dei giochi e vince 100 medaglie, cinquantuno sono d'oro. Gli Stati Uniti di Obama sono già un impero in dismissione. Terza c'è sempre la Russia. L'Italia è nona, dietro al Giappone e davanti alla Francia. Sono gli anni del fulmine Bolt. È un'apparizione di nove secondi e sessantanove centesimi. Il quarantunesimo passo sembra quasi al rallentatore, come se avesse voglia di sospendere il tempo, di fermarsi lì ancora un altro po', per godersi la scena, per non dover scappare via. Sono gli otto ori di Michael Phelps, lo squalo di Baltimora, che va oltre l'impossibile segnato dal baffo anni '70 di Mark Spitz. Sono Federica Pellegrini e Valentina Vezzali e la marcia improvvisa di Alex Schwazer. È il principe Carlo che diserta l'inaugurazione per ricordare al mondo che in Tibet la libertà è morta da tempo. La sorpresa è che il pubblico di Pechino applaude gli atleti di Taipei, il nome clandestino che Taiwan è costretta a portare sotto la fiaccola. Il segretario del Partito comunista è Hu Jintao, l'uomo in grigio, che parla poco, padre della «società armoniosa», dove la dittatura non è certo meno morbida, ma ci si preoccupa degli ultimi, riconoscendo che il comunismo è un'utopia e nella realtà c'è chi è troppo ricco e chi è troppo povero. È la Cina che si ingegna a far crescere una classe media. Tutti hanno voglia di crederci, soprattutto gli occidentali, che sognano accordi commerciali e non si sono accorti che i cacciatori sono già diventati prede. Sono loro che verranno colonizzati. L'estate di Pechino è una fata Morgana. È un errore di prospettiva. È un miraggio.

Tocca all'inverno svelare l'illusione. Sono passati quasi tre lustri e Pechino è una regina di ghiaccio. Non sorride e non si nasconde. Adesso è l'Occidente che rinserra le porte, senza respiro per le sue paure e convinto che da Est non arrivi nulla di buono. Pechino 2022 non è una festa. È dubbi e sospetti. È l'inquietudine di chi non sa più tornare indietro e continua a scommettere come il giocatore d'azzardo che ha perso troppo per poter rinunciare a un ultimo tiro di dadi, giocandosi l'ultima libbra di speranza, l'ultimo pezzo di carne. La mascotte è un panda e si chiama Bing Dwen Dwen. È rivestito da un guscio di ghiaccio e il palmo della mano sinistra a forma di cuore. Xi Jinping è il segretario del Partito comunista. È stato di fatto eletto a vita. Non è molto diverso da un imperatore. Non teme di mostrarsi al mondo. Un giorno si giocherà tutto sulla scacchiera di Taiwan. È l'ossessione di una sola Cina, una potenza globale che fonda la sua forza sul capitalismo di Stato, su un connubio di ideologia e religione, su comunismo e confucianesimo e sull'idea che la libertà e la democrazia siano il punto debole dell'Occidente. La sua Cina è diffidente e l'inverno non riesce a nascondere il marcio e la paura. L'1% più ricco della popolazione detiene ora il 31% della ricchezza (non molto lontano dal 35% negli Stati Uniti) e la maggior parte delle persone in Cina rimane relativamente povera: 600 milioni di persone sopravvivono con un reddito mensile inferiore a 1.000 yuan (circa 136 euro) al mese. I giovani si sono riversati nelle metropoli urbane per cercare lavoro, le regioni rurali sono state prosciugate e lasciate al degrado, mentre secoli di vita familiare allargata comunitaria sono stati sconvolti in una generazione, lasciando gli anziani senza figli e senza risorse. La feroce crisi immobiliare di questi mesi e la pandemia senza fine hanno fatto il resto. La Cina, in apparenza mai così forte, ora ha paura di sciogliersi come neve.

Una chiave per conoscerla è seguire una figura che appare poco, ma è il teorico della politica conservatrice di Xi Jinping. Wang Huning è uno dei sette signori del comitato centrale del Partito comunista. È l'unico a non aver mai governato direttamente una provincia. Il suo ruolo è un altro. Chi non lo ama lo paragona a Rasputin, altri parlano di lui come una sorta di Talleyrand o di Kissinger. È l'ispiratore della politica del «sogno cinese». È un sogno imperiale. La promessa è che la Cina non assomiglierà mai alla società americana. A presenziare la cerimonia di apertura ci sarà Vladimir Putin.

L'inverno di Pechino è maledettamente reale.

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