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Conte e il vizio di tirare a campare

Conte e il vizio di tirare a campare

Nessuno come lui incarna l'orizzonte degli italiani. Purtroppo. La sua sta diventando l'autobiografia di una nazione. Giuseppe Conte è l'uomo del tirare a campare. Non ha un progetto, non ha una prospettiva, non sta lì neppure a chiedersi cosa accadrà domani. Non gli interessa. L'importante è restare a galla, giorno dopo giorno, cercando di sminare le insidie che gli si presentano davanti, con l'unica preoccupazione di sopravvivere ancora un po', un pezzo alla volta, aggrappandosi al presente con la determinazione di chi non sembra avere alternative. Non bisogna biasimarlo. È, in fondo, il premier della crescita zero. La accetta, la normalizza, allargando le braccia, con un sorriso serafico, come se fosse qualcosa di ineluttabile o il disegno misericordioso della provvidenza. Chi siamo noi per contrastarlo? Così risponde a tutto spandendo un ottimismo senza allegria, quasi come una presa per i fondelli, ma senza malizia. Chi lo ascolta rischia di restare spiazzato. Non è vero, non può essere vero, non dice quello che dice credendoci. Non è che ci crede, se ne convince. Conte è un artista dei palliativi. Non è importante fare i conti con la realtà, perché se una cosa la dici si avvera. Come quando lo scorso anno, di questi tempi, ha spifferato agli italiani che il 2019 «sarà un anno bellissimo». Se non ve ne siete accorti è solo perché sbagliate prospettiva. Il premier non parlava in generale, ma di se stesso. È riuscito in fondo in un'impresa rara: succedere a se stesso a Palazzo Chigi ribaltando la maggioranza. Una mossa che inventò Agostino De Pretis nell'ottobre del 1882, quando, durante un banchetto offerto dai suoi elettori, giustificò il suo trasformismo con lo stesso sorriso da povero interprete del canovaccio dei tempi: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?». Pure De Pretis, dopotutto, era un avvocato.

Bisogna riconoscere che Conte ha superato in cinismo il suo lontano predecessore. De Pretis coltivava clientele e potere, senza preoccuparsi troppo da dove venissero, ma aveva un'idea di Italia. Fu lui a battersi per l'istruzione obbligatoria, ramificò la rete ferroviaria, costruendo stazioni e binari anche nei piccoli centri. È con lui che l'Italia fa una scelta di campo geopolitica forte: si allea con la Germania e l'Austria e sigla il patto della triplice alleanza. Scelta magari disgraziata, poi ripudiata e rinnegata dai suoi successori con la Grande guerra, ma per lo meno alla luce del sole.

Conte no, Conte amoreggia con Berlino ma senza compromettersi. Conte ti vende il vuoto. Qualcuno si ricorda di un progetto su cui Conte metta davvero la faccia? Non sembra avere una politica economica, tranne una tendenza a statalizzare l'Ilva, l'Alitalia o qualsiasi cosa che stia franando. Sono toppe. Improvvisate. Non ha una politica sul lavoro. Neppure sulla scuola o sulla sanità. Non ha politiche sul futuro. Non ha politiche su nulla. Eppure sta lì. Non sappiamo neppure come ci sia arrivato. Si è prestato a fare da notaio al contratto tra Cinque Stelle e Lega, spuntato dal nulla, come amico del grillino Bonafede. Quando l'accordo salta, all'improvviso il Pd lo accetta e lo adotta. Adesso ci dice di stare sereni, perché è certo di guidare il governo fino al 2023. Ma su quali principi? Chi lo legittima? Quale fiducia tiene a galla questo azzeccagarbugli? Il nulla. Conte sta lì per evitare che non arrivi Salvini. E va bene, magari ci può perfino stare. Davvero però l'unica alternativa a Salvini dev'essere il nulla? Conte non pensa, non fa, non sogna. Conte sopravvive. È uno spaventapasseri. Tiene lontane le nostre paure.

È lo specchio dei nostri fallimenti.

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