Cronache

Cosa Nostra e l'intrigo dei tre Presidenti

Cosa Nostra e l'intrigo dei tre Presidenti

Qualche giorno fa la Cia ha reso pubblici alcuni dossier che giacevano nei suoi archivi da più di 40 anni. È uscito fuori l'incredibile: JFK probabilmente ucciso da un poliziotto texano ultra-conservatore; e, forse, Adolf Hitler fuggito in Argentina. Ipotesi terribili, ma una grande democrazia per crescere ha bisogno di verità. Da noi, invece, ormai da più di cinque lustri la vicenda delle stragi e della trattativa Stato-mafia rispunta fuori alla vigilia di ogni campagna elettorale. E, come al solito, per una mezza frase in dialetto siciliano di un mafioso o di un pentito. A parte il fatto che dopo il caso Consip l'attendibilità di certe intercettazioni lascia il tempo che trova, quello che colpisce di più - anzi, per alcuni versi, meno - è che sia tirato in ballo sempre Silvio Berlusconi. Più che una notizia, per la sua puntualità, la vicenda ormai somiglia ad un adempimento elettorale.

Allora vale la pena di prendere i libri di Storia, perché ormai di quello si tratta, per scoprire che quando il Cav decise di scendere in politica quelle vicende si erano già consumate ed erano belle e che sepolte. L'unico fatto vero, infatti, di tante congetturare è che nella seconda parte del 1993, quando le bombe della mafia a Roma, Milano e Firenze mietevano ancora vittime, lo Stato unilateralmente decise di non rinnovare il regime del 41 bis, cioè del carcere duro, a oltre 300 picciotti, andando incontro ad una delle richieste fatte dai famigliari dei boss mafiosi al capo dello Stato di allora, Oscar Luigi Scalfaro. Una decisione che appare ancora oggi una contraddizione, di cui non si è mai capita la ragione. La paternità se l'assunse un uomo mite come l'allora ministro della Giustizia, Giuseppe Conso. Ma fu la classica foglia di fico, perché quella scelta non poteva non appartenere alla sfera politica. Per averne una prova basta leggersi i verbali del 1992-1993 del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza, cabina di regia contro l'offensiva mafiosa. Nella riunione del 16 dicembre del 1993 (ci vogliono ancora quattro mesi prima che Berlusconi arrivi a Palazzo Chigi) il procuratore nazionale antimafia di allora, Bruno Siclari, si lamentò per quella decisione, ma il capo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Adalberto Capriotti, rispose che quelle scelte erano determinate «da interventi politici motivati da esigenze di carattere generale».

La famosa «trattativa», se c'è stata, è tutta qui. E, poiché non siamo negli Usa, resterà un segreto, visto come è stata custodita per un quarto di secolo. Anche per una serie, diciamo così, di coincidenze che portarono personaggi che ricoprivano incarichi chiave in quel momento a ricoprire ruoli fondamentali super partes per un ventennio. Il governo in questione, infatti, era il primo «governo del presidente» guidato da Carlo Azeglio Ciampi (una formula da quel momento ricorrente) e gestì il difficile passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica. Con un Parlamento delegittimato da Tangentopoli, quel governo trasse la sua legittimazione dalla trimurti istituzionale. In poche parole, le decisioni più delicate erano frutto di una consultazione permanente tra Scalfaro al Quirinale e Ciampi a Palazzo Chigi, mentre i rapporti con il Parlamento venivano tenuti dal presidente del Senato, Giovanni Spadolini, e dal presidente della Camera, Giorgio Napolitano. Ebbene, sarà un caso, ma, a parte Spadolini che scomparve nel 1994, gli altri tre membri di quel direttorio si sono ritrovati in venti anni tutti al Quirinale. Ciampi successe a Scalfaro, il Nap a Ciampi. Ancora: capo della polizia nel '93 era Vincenzo Parisi, nominato da Scalfaro quando era ancora ministro dell'Interno nel governo Craxi. Divenne una sorta di garante del presidente della Repubblica: Parisi dipendeva dal ministro dell'Interno di Ciampi, Nicola Mancino, ma in realtà rispondeva a Scalfaro. La decisione di togliere il 41 bis a oltre 300 mafiosi non si sarebbe potuta neppure immaginare senza il suo placet. Tanto era il rapporto stretto tra Parisi e il Colle che, quando arrivò Berlusconi quattro mesi dopo, il braccio di ferro più combattuto nella composizione del governo fu per la nomina di Roberto Maroni a ministro dell'Interno da parte del Cavaliere: un leghista in quel sancta sanctorum che è il Viminale fece paura a molti. Tant'è che Maroni ci mise mesi per sostituire il custode dei segreti Parisi: ci riuscì, ma dopo 90 giorni l'intero governo Berlusconi fece le valigie. Dopo di lui, in un nuovo «governo del presidente», quello di Lamberto Dini, andarono al Viminale due «tecnici», il presidente della Cassazione Antonio Brancaccio e, a seguire, non poteva mancare un ex capo della Polizia, Giovanni Coronas: due uomini di fiducia di Scalfaro. Poi, quando si tornò ad un governo politico, quello di Prodi del '96, ministro dell'Interno divenne uno dei membri della trimurti istituzionale del '93, Giorgio Napolitano. Un ex presidente della Camera che diventa inquilino del Viminale è un unicum nella storia delle democrazie occidentali.

Altro aneddoto. In questo Paese le intercettazioni sono state un «totem» per venti anni, ma l'unica intercettazione che è stata distrutta, senza essere ascoltata, è quella tra Napolitano, al tempo ancora capo dello Stato, e Mancino. Coerente con la cultura di questi anni, Napolitano avrebbe potuto dare l'esempio e renderla pubblica. E, invece, niente. Pretese che fosse distrutta. Le cronache raccontano che in quella conversazione i due abbiano parlato proprio dei fatti del '93.

Ora, qui non si vuole condannare nessuno. Ci mancherebbe altro. Non si sa neppure se quella trattativa ci sia stata davvero. E, in fondo, al di là di ogni ipocrisia, se ci fosse stata avrebbe potuto avere anche una sua logica. Tangentopoli aveva tagliato la testa alla classe di governo del Paese. La mafia ricattava lo Stato e lo Stato non era all'epoca in condizione di arginarla: se il 31 ottobre del '93 fosse esplosa l'autobomba allo Stadio Olimpico, Roma sarebbe diventata Bagdad. Bisognava prendere tempo e, se quella fu davvero l'opzione scelta, le catture di Riina e Provenzano anni dopo hanno dimostrato che fu giusta. Nel paese del Machiavelli, il fine giustifica i mezzi. Quello che, però, non è più tollerabile è tirare in ballo ad ogni elezione un personaggio come Berlusconi, che ci azzecca come i cavoli a merenda con le stragi e con la trattativa. Una sorta di capro espiatorio di una sceneggiatura costruita sulle suggestioni di pentiti e mafiosi. Usata prima per coprire una possibile trattativa e adesso, periodicamente, per fini elettorali o per qualche movie. Magari la storia degli oltre 300 mafiosi a cui fu tolto il 41 bis può offrire spunti più vicini alla realtà e anche più intriganti. A meno che qualcuno non decidesse di dire al Paese il vero. In fondo su questa storia si sono bruciate carriere e se ne sono costruite altre.

E gli inediti non mancano: la leggenda racconta che Scalfaro registrasse tutti i suoi colloqui al Quirinale. Di materiale, insomma, ce ne sarebbe tanto. Basterebbe uno slancio di amore per la verità.

Lo ha avuto pure quello che per molti a sinistra è un troglodita: Donald Trump.

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