Cronache

A furia di far politica la Chiesa ha smarrito la sua missione: testimoniare la fede

A furia di far politica la Chiesa ha smarrito la sua missione: testimoniare la fede

N on c’è dubbio che la botta elettorale in Vaticano si sia sentita, e molto forte anche. Malgrado la durissima e, a tratti, feroce campagna contraria portata avanti dalla Santa Sede, dai vertici dell’episcopato italiano e dai media ufficiali, il leader della Lega Matteo Salvini ha avuto un successo enorme, anche fra i cattolici. Lo ha certificato il sondaggio Ipsos, secondo cui tra coloro che frequentano la messa ogni domenica la Lega ha raccolto il 33% dei voti. Appena meno del voto nazionale, ma in realtà ha un valore anche maggiore se si considera la pressione dall’alto: alcuni vescovi si sono spinti fino a giudicare «non cristiano» chi vota Lega, e tanti parroci hanno approfittato delle omelie per fare comizi, ovviamente con l’unico obiettivo di sbarrare la strada a Salvini. Di fronte a questa debacle, e lasciando perdere alcuni patetici tentativi di sminuire il successo della Lega, in Vaticano per alcuni giorni è calato il silenzio. Riflessione? Forse, ma è più probabile che ci siano soprattutto conti da regolare all’interno della Curia su ragioni e conduzione della crociata anti-salviniana. E infatti dal silenzio sono uscite due voci, che rappresentano approcci ben diversi. Il primo è stato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, capo della diplomazia vaticana, che rispondendo ai giornalisti a margine di un convegno, ha aperto al dialogo: «Il Papa continua a dirlo: dialogo, dialogo, dialogo. E perché non Salvini? Anzi, il dialogo si fa soprattutto con quelli che non la pensano come noi e con i quali abbiamo qualche difficoltà e qualche problema. Io sono di questo parere, e quindi anche con Salvini si deve dialogare». Per molti è un peccato che si sia saputo del suo parere a elezioni fatte, ma è chiaro che dopo la sberla ricevuta dalle urne, in Vaticano hanno preso forza voci meno oltranziste. Dall’intervista appare evidente che Parolin non abbia alcuna simpatia per la Lega, soprattutto chiede che non vengano più usati simboli religiosi (vedi il famoso rosario di Salvini) in politica. Ma è altrettanto evidente che il Segretario di Stato non abbia molta simpatia neanche per chi ha trascinato la Santa Sede in una «guerra santa» degna di miglior causa. Interessante che per invocare il dialogo con Salvini, Parolin abbia citato papa Francesco, perché sa che sta proprio intorno al Papa chi sta dirigendo la Chiesa a tutta velocità verso gli scogli. E infatti, l’«invocato» si è subito manifestato. Padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, vera eminenza grigia di questo pontificato, autore di molti tweet al veleno durante la campagna elettorale, non solo non demorde ma addirittura alza ulteriormente i toni: «C’è un rospo, una malattia morale nella pancia del nostro Paese che insidia anche la nostra Chiesa», ha scritto per Famiglia Cristiana, «se l’usurpazione politica dei simboli religiosi di fratellanza viene considerata accettabile; se davanti a un uomo che affoga, un cristiano accetta di imporre una penale a chi lo salva; se il nazionalismo contraddice l’essenza stessa dell’universalità propria del cattolicesimo, ciò significa che la coscienza cristiana è stata hackerata, geneticamente modificata». Parole pesantissime, che prefigurano dure battaglie in Vaticano sulla strada da seguire nei confronti dell’Italia, del governo e di Salvini. Appare però una battaglia tutta di vertice, verso cui molti cattolici provano ormai aperto fastidio. Basterebbe vedere i tanti commenti sui social alle parole sia di Parolin sia di Spadaro. Di questo malessere si è fatto interprete l’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Gerhard Müller, il quale in una intervista al Corriere della Sera, puntando esplicitamente il dito contro padre Spadaro e il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, ha detto: «In questa fase la Chiesa fa troppa politica e si occupa troppo poco di fede». Il cardinale ha stigmatizzato la posizione secondo cui non è cristiano chi è contro l’immigrazione irregolare: «Un’autorità ecclesiastica non può parlare in modo dilettantesco di questioni teologiche. E soprattutto non deve immischiarsi nella politica, quando ci sono un Parlamento e un governo legittimati democraticamente». Il punto vero è che, guardando alla situazione italiana, si è vista la Chiesa trascinata nell’arena della competizione partitica, addirittura personale, che nulla ha a che fare con lo sguardo sulla politica che nasce dalla fede e quindi dalla Dottrina sociale della Chiesa, che raccoglie il magistero e l’esperienza di duemila anni di storia. Si è vista una Chiesa che ha rinunciato a uno sguardo più grande a difesa della dignità umana, per identificare la fede in alcune scelte per risolvere i problemi sociali. Alla vigilia delle elezioni, il teologo domenicano padre Giorgio Maria Carbone aveva denunciato proprio questa riduzione, il trattare la Chiesa come un partito politico da parte di tanti vescovi. Un approccio, diceva padre Carbone, che nasce dal dimenticare che la Chiesa è una iniziativa di Dio, non degli uomini; «che la comunità visibile dei credenti c’è in ragione della comunità invisibile, soprannaturale e divina dei credenti che sfugge all’analisi sociologica e di altre scienze positive». E se sono i pastori a dimenticare questa dimensione, figurarsi i fedeli. Infatti, un aspetto interessante messo in rilievo dal sondaggio Ipsos è che i cattolici hanno votato come tutti, non c’è alcuna differenza significativa. È il segnale che la fede come criterio di scelta nella vita, e quindi anche in politica, non ha più alcuna incidenza.

È su questo che i vescovi farebbero bene a riflettere, non su Salvini.

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