Cronache

I "gemelli" della jihad cresciuti a Milano

Dal Marocco alla radicalizzazione in Italia. Uno è morto in battaglia in Siria, l’altro va verso il processo. Ma è latitante

I "gemelli" della jihad cresciuti a Milano

Va verso il rinvio a giudizio Monsef el Mkhayar, giovanissimo marocchino (classe 1995) cresciuto a Milano e partito per combattere con l’Isis in Siria. La richiesta del pm di Milano Piero Basilone è stata depositata ieri. Monsef oggi ha 21 anni, prima di imbracciare le insegne e le armi del Califfato, si è radicalizzato da noi. Tra la comunità di recupero per minorenni in difficoltà cui era stato affidato, il carcere di San Vittore e la moschea milanese di via Padova. L’accusa contestata al presunto foreign fighter è di terrorismo internazionale. Latitante, è destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Paolo Guidi, che ricostruisce il percorso di Monsef. E del suo «gemello nella jihad» Tarik Aboulala, stessa nazionalità, stessa età. Stessa vocazione estremista e stesso fascicolo di inchiesta. L’indagine è stata chiusa lo scorso luglio. Nel frattempo però Tarik è morto in combattimento in Siria. I due amici, provenienti - si legge nell’ordinanza - da «contesti familiari carenti o problematici», dal 2010 erano affidati alla comunità Kayros di Vimodrone, nel Milanese.

Che poi gli ha messo a disposizione un appartamento che occupavano con altri giovani arabi. Monsef nel 2013 ha fatto un mese di carcere per spaccio. Qui, spiegano gli inquirenti, c’è stata «un’ulteriore radicalizzazione». È lui a convincere l’amico a partire. I due dal territorio del Califfato contatteranno via social e WhatsApp un terzo ragazzo marocchino: convertiti e vieni a combattere - scrivono alla fine del 2015 - altrimenti (qui è Tarik a minacciare) «quando arrivo là ti taglio la testa. Hai visto faranca, farancia», facendo riferimento agli attacchi terroristici di Parigi. L’obiettivo del tentato proselitismo rifiuta: «La cosa non mi riguardava affatto - dirà -, prima di tutto perché sono cittadino italiano per parte di madre». E denuncia tutto al responsabile della comunità. Monsef nei mesi scorsi ribadiva su Facebook che se tornerà in Italia, si farà «esplodere». Come ricostruito dalle testimonianze raccolte dalla Digos nell’indagine coordinata anche dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, Monsef è passato dal bere e far uso di droghe allo smettere con le sostanze perché «pervaso da fanatismo religioso». Insieme al compagno nel gennaio 2015 parte da Orio per Istanbul, con un biglietto di andata ritorno per non destare sospetti. Si addestrano e dal fronte postano foto con tuta mimetica e armi semiautomatiche, bandiere e «carta d’identità» dell’Isis.

Quei biglietti aerei di ritorno non sono mai stati usati.

Commenti