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Dalla Trenta uno schiaffo a chi rischia la vita in Iraq

Dalla Trenta uno schiaffo a chi rischia la vita in Iraq

«Ne ho bisogno». «Non è per me, ma per mio marito». «È un complotto». Le argomentazioni con cui la signora Elisabetta Trenta s'arroga il diritto d'occupare una casa non sua non meriterebbero un commento. Sono l'ennesimo flatus vocis di una casta indegna, pronta a spingere il Paese nel baratro per il proprio tornaconto personale. Un dettaglio però le rende particolarmente oltraggiose. Da quella signora, convinta di poter alloggiare in quattro stanze e doppio salone per complessivi 180 metri quadrati in virtù delle proprie relazioni personali, dipendevano, fino a settembre, le sorti dei nostri militari. Comprese quelle dei cinque incursori saltati su un ordigno nel corso di una missione in Irak. Una missione già avviata quando la signora Trenta era ministro. Una missione di cui sicuramente ha potuto conoscere non solo rischi e difficoltà, ma anche il coraggio e la dedizione degli uomini incaricati di realizzarla. Uomini su cui la signora Trenta vantava, se non il comando, almeno il controllo. Almeno tre di loro desidererebbero oggi aver indietro quelle gambe, quei lembi di carne, quei brandelli di vita abbandonati sul terreno. Come la signora Trenta ne avrebbero tanto bisogno. Estremo bisogno. Non per offrire una cena agli amici. Non per curare relazioni personali. Non per gestire piccole trame di potere in spazi confortevoli garantiti dalle tasse del contribuente. No, a differenza della signora Trenta quei cinque militari ne avrebbero bisogno per continuare la propria vita. Una vita che, per gran parte delle ore, dei giorni e degli anni coincideva con le proprie missioni. Missioni al servizio dello Stato, condotte sulle prime linee dimenticate del pianeta, per proteggere tutti noi dalla minaccia invisibile del terrorismo. Missioni affrontate in silenzio e nel più assoluto ed impersonale anonimato a fronte di una paga dignitosa, ma insufficiente a compensare rischi e sacrifici a cui andavano incontro. Eppure nessuno di quei militari s'è mai permesso di rivendicare nulla. Durante il suo mandato da ministro Elisabetta Trenta ha sottoscritto tagli e decurtazioni a un bilancio della Difesa già esiguo. Dopo quegli ennesimi tagli garantire l'addestramento e le dotazioni indispensabili per la sicurezza dei nostri militari è diventato ancora più complesso. Ma nessun incursore ha mai alzato la voce. Nessuno si è mai sognato di strillare «ne abbiamo bisogno». E anche quando la signora Trenta ha calpestato il loro orgoglio spacciando le Forze Armate per una nuova Protezione civile da usare, alla bisogna, per spazzar le strade si son ben guardati dal ricordarle di non essere né portantini, né crocerossine, ma guerrieri stimati e apprezzati dai nostri migliori alleati. Guerrieri silenziosi e invisibili da cui dipendono la nostra e la sua incolumità. Oggi la signora Trenta combatte per i suoi 180 metri con doppio salone. Tre di quei militari combattono invece con le proprie menomazioni nelle stanzette asettiche del Celio. La signora Trenta discetta di complotti arcani ai propri danni. Loro trascorrono le giornate incatenati alle macchine con lo sguardo abbandonato su fasce e moncherini. Non dicono una parola, soffrono in silenzio. Ma in quel silenzio riecheggia e rimbomba l'indescrivibile vergogna di una signora che, per 15 lunghi mesi, ha goduto di un privilegio ben più immeritato della sua attuale abitazione.

Il privilegio di spacciarsi per loro ministro.

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