Cronache

L'analisi dell'aggressione ai militari in Stazione centrale a Milano

Diversi gli elementi discutibili per quanto riguarda le dinamiche dell'attacco avvenuto ieri al grido "Allahu Akbar"

L'analisi dell'aggressione ai militari in Stazione centrale a Milano

L'aggressione al caporal maggiore scelto Matteo Toia, avvenuta ieri mattina al grido "Allahu Akbar" in Stazione Centrale a Milano, fa emergere una serie di notevoli problematiche, ma per rendersene conto è necessario esaminare attentamente il filmato, realizzato da un passante.

In primis è essenziale osservare le tempistiche dall'input iniziale, quando l'aggressore si avvicina con passo spedito e minaccioso verso i militari, fino all'escalation dell'attacco; passa infatti un intero minuto e in tutto questo tempo nessuno degli addetti alla sicurezza presenti si è attivato per neutralizzare l'individuo. Un minuto è veramente tanto, troppo, per lasciare campo libero a un attentatore.

In secondo luogo salta all'occhio come i militari si allontanino immediatamente dall'aggressore e gli girino al largo; tutto ciò mentre nei paraggi transitano passanti, potenzialmente a rischio di aggressione. Cosa sarebbe successo se l'attentatore avesse avuto a disposizione un'arma più letale? Magari un machete o una pistola? Per non parlare di un eventuale attacco pianificato. Probabilmente oggi si conterebbero morti e feriti.

Come reso noto da Milano Today, l'aggressore verrà poi bloccato da un cittadino senegalese di 52 anni che ha "atterrato lo yemenita, aiutando il reggimento ad evitare che fuggisse". Massimo rispetto a quest'uomo che incurante del rischio, si è avventato sull'aggressore e lo ha bloccato. Un esempio di "sicurezza partecipata"? Non proprio. Se un reggimento di militari ha bisogno dell'intervento di un privato cittadino per atterrare un attentatore, allora forse c'è qualcosa che non funziona nel meccanismo attualmente in atto per garantire la sicurezza dei cittadini.

Sicuramente i militari sono soggetti a una serie di misure, meglio note come "regole d'ingaggio" che limitano ampiamente il proprio operato, ma se questo è realmente il problema, allora forse ci sono parecchie cose da rivedere. Tenere le pattuglie sul territorio prettamente come "deterrente" è una strategia che non funziona e sono i fatti a dimostrarlo. Mettere dei ragazzi in strada senza fornire loro i mezzi necessari per poter fare il proprio lavoro con la massima efficacia significa mandarli al macello e non garantire il compito per il quale, almeno in teoria, dovrebbero essere lì e cioè neutralizzare le minacce.

Ieri per fortuna non ci sono stati morti, ma l'epilogo poteva risultare ben peggiore ed è dunque il caso di prendere consapevolezza di quanto accaduto per rimediare alle mancanze.

Un'ultima osservazione su quanto affermato dallo stesso aggressore, un cittadino yemenita di 23 anni, irregolare sul territorio, che ha dichiarato di aver agito per "raggiungere il paradiso di Allah". Nessuna rivendicazione ideologica legata a Isis o al-Qaeda, ma qualcosa di più profondo, la volontà di raggiungere il "paradiso", il martirio dunque, un concetto intrinseco a quella dottrina islamista radicale che va ben oltre la propaganda delle singole organizzazioni jihadiste, propaganda che lascia oramai il tempo che trova, perchè poi sono le azioni che fanno la differenza, il modus operandi, in questo caso l'utilizzo di un oggetto di uso quotidiano per recare il maggior danno possibile.

Un modus operandi messo in atto fin dagli anni '90 dai terroristi palestinesi in Israele e oggi in scena anche in Europa.

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