Politica estera

La lezione spagnola

Le elezioni spagnole sono un segnale, per non dire un monito, anche per il centrodestra italiano

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A parte le esultanze paradossali della sinistra che organizza carovane di tifo da mondiali di calcio perché i fratelli iberici sono riusciti a strappare quello che al massimo può essere considerato un pareggio, le elezioni spagnole sono un segnale, per non dire un monito, anche per il centrodestra italiano.

In sintesi: le elezioni si vincono quando una delle coalizioni convince la maggior parte dell'elettorato centrista-moderato. È un dato scontato, ma ogni tanto lo si dimentica ed è stato del tutto rimosso in tempi di populismo e sovranismo. Succede in tutti i sistemi più o meno bipolari. Negli Usa, a parte Trump che probabilmente le prossime elezioni presidenziali consegneranno alla Storia come una parentesi, tutti i candidati che sono arrivati alla Casa Bianca - da Reagan a Clinton in poi - si sono imposti attirando il segmento elettorale di confine del campo avverso. In Inghilterra uguale meccanismo: un nome solo per tutti, Tony Blair. E per tornare in Italia, nelle ultime elezioni senza i voti di Forza Italia il centrodestra non avrebbe vinto. La verità è che una coalizione caratterizzata troppo a destra e senza una forte presenza al centro difficilmente riesce a vincere. La lezione di Marine Le Pen, eterna candidata che arriva sempre ad un passo dal successo senza centrarlo mai, è esemplare. E domenica il rischio di un governo con dentro la destra di Vox ha fatto impennare il numero dei votanti rispetto alle elezioni precedenti di circa il 5%.

Un concetto che Silvio Berlusconi aveva ben presente. In uno degli ultimi colloqui che ho avuto con lui, infatti, analizzava con la lucidità di sempre il futuro elencando una serie di dati: primo, dopo le prossime elezioni europee Schlein e Conte daranno vita ad un'alleanza organica (una confidenza del leader grillino); secondo, a quel punto sul versante di sinistra si creerà uno schieramento in cui ci sarà posto per tutti, tipo l'Unione di Prodi (il Professore lo teorizza da mesi, mentre Stefano Bonaccini dal voto spagnolo trae l'indicazione che «c'è futuro per una sinistra riformista e radicale»); terzo, è inutile ragionare sui dati delle ultime elezioni in cui la sinistra si è presentata divisa, perché la differenza tra i bacini elettorali dei due poli - sondaggi alla mano - si aggira sul 2,5%. Conclusione del Cav: per vincere alle prossime elezioni o il centrodestra attira a sé tutto ciò che è al centro o Forza Italia, che è il partito moderato per antonomasia della coalizione, deve essere capace di rappresentare la maggior parte di quell'elettorato.

A queste due opzioni si aggiunge un'altra variante: Giorgia Meloni dovrebbe trasformare Fdi o inventare un partito («conservatore» o con un altro nome importa poco) che sia capace di avere appeal anche sull'elettorato moderato, di rappresentarlo. Operazione suggestiva ma complicata anche perché la premier dovrebbe mettere in conto la perdita di una parte del suo elettorato di riferimento e identitario (Salvini è in attesa). Questa in breve è la lezione che arriva dalla Spagna. I popolari vincono, tornano ad essere il primo partito, ma la destra di Vox, invece di essere la carta per mettere in piedi il governo si è trasformata in una zavorra nelle alleanze (è incompatibile con i movimenti autonomisti spagnoli).

I tempi in cui l'euroscetticismo, il radicalismo di destra, il sovranismo esasperato esercitavano appeal sono sempre più lontani.

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