Cronache

"L'ho uccisa io", una lettera riapre il giallo di Mozzo

Cronaca Vera pubblica la missiva con cui Tironi scagiona il figlio per la morte della moglie, Gemma Lomboni. Fu un suicidio simulato orchestrato dall'uomo. Il figlio, innocente è latitante in Brasile dopo la condanna a 22 anni

"L'ho uccisa io", una lettera riapre il giallo di Mozzo

«Non riesco più a tener dentro questo peso. È stata una disgrazia». Una lettera inedita pubblicata nel numero di Cronaca Vera in edicola potrebbe riaprire un caso che dura da 18 anni. Quello di Michele e Flavio Tironi, padre e figlio accusati della morte di Gemma Lomboni, moglie e madre dei due. Dopo 14 anni di processi, scrive Edoardo Montolli, i Tironi furono condannati a 22 anni di prigione per l’omicidio. Ora spunta una confessione del padre, scritta sei giorni dopo la sentenza di condanna in appello a Milano, e cioè il 21 aprile 2008. La missiva, considerata attendibile da una perizia grafologica, secondo i legali del ragazzo ormai trentenne potrebbe definivamente scagionarlo.

La storia inizia a Mozzo, provincia di Bergamo. Flavio Torna a casa dopo essere stato da un amico. Il padre è nella falegnameria. «La mamma dov’è?», si chiedono allora. Non c’è, è sparita. I due scendono in cantina a cercarla ma la porta è chiusa dall’interno. I due la forzano con uno scalpello, temono il peggio. Che un minuto dopo si materializza nel più macabro dei modi. Gemma è morta. La donna, appena 56 anni, è a terra. Ha una vistosa ferita sul viso, sul naso e sulla fronte. Un’altra ferita sulle ginocchia. Sopra il cadavere pende un cappio artigianale, realizzato con un pezzo di guarnizione e agganciato al soffitto. Non sembrano esserci dubbi: la donna ha tentato di togliersi la vita impiccandosi ma è caduta. Ed è morta. Scatta l’inchiesta, come succede sempre in questi casi di morte violenta. Il magistrato dispone l’autopsia. Il referto recita «asfissia da strozzamento» con una «costrizione manuale del collo con compressione manuale dell’apertura orale». Insomma, è stata ammazzata.

I pm puntano il dito contro i due uomini, padre e figlio. Una ipotesi alla quale nessuna delle 45 parti civili - comprese i tredici fratelli della donna - crede. Anche perché tutti sanno che Gemma era depressa: si era rotta il ginocchio e lei, ancora tanto bella nonostante l'età, non riusciva ad accettare l’idea che potessero amputarle una gamba. E invece no, per i pm è stata ammazzata. Comincia così un calvario giudiziario lungo 14 anni. Dopo cinque assoluzioni (due per Flavio e tre per il padre) tutte annullate dalla Cassazione, il 3 dicembre 2008 i giudici della suprema corte confermano l’unica condanna di entrambi a 22 anni di carcere. Colpevoli. Il movente? Non uno, due: Michele voleva un’altra donna, il figlio Flavio voleva l’eredità. Un macigno per Flavio, che si è sempre proclamato innocente. Non ce la fa a reggere questo peso. Per questo fugge in Brasile appena prima dell’ultima sentenza. Il padre Michele è morto, meno di un anno fa. Ma la «sua» verità su quell’orrendo episodio è saltata fuori all’improvviso con una lettera datata 21 aprile 2008, cioè sei giorni dopo la sentenza di condanna in appello. Michele l’aveva scritta ma l’aveva messa in un cassetto. C’era una verità straziante, che racconta gli ultimi minuti di vita della donna. Una chiacchiera col figlio a pranzo («Dobbiamo ricoverarla, sta male»), lei che ascolta e si infuria («Non dargli retta»), il figlio disperato che preferisce scappare da un amico che continuare la discussione. E poi? Poi la situazione precipita. Marito e moglie litigano. Lui ha bevuto. Lei lo insulta, urla e inveisce, poi lo aggredisce. Spintoni, schiaffi. È un attimo, è la fine. Una mano sulla bocca, una sul collo - proprio come recita l’autopsia - una foga bestiale incontrollata. La donna si divincola, ruota su se stessa e cade. L’uomo racconta tutto, scrive ogni particolare di quei minuti interminabili. La donna è morta, la situazione precipita. L’uomo recupera un barlume di lucidità. Inscenare il suicidio è la soluzione, certo. La guaina sul soffitto, il gancio, la chiave dentro la toppa che gira all’interno della cantina grazie a un fil di ferro. Sembra tutto perfetto. È un segreto che resiste per 14 anni. «Figlio mio, perdonami», scrive il padre. «Chiederemo una nuova perizia medico legale che chiarisca la compatibilità della confessione con la dinamica -  ha spiegato a Cronaca Vera l’avvocato di Flavio, Claudio Defilippi - una cosa è certa: il mio cliente è innocente». Il ragazzo potrebbe tornare dal Brasile per avere finalmente giustizia. La settimana prossima la rivista ha annunciato che pubblicherà in esclusiva l’intervista a Flavio Tironi, che commenterà la missiva del padre.

Non si escludono nuovi colpi di scena.  

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