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Il vestito "finto sobrio" dell'ex avvocato del popolo

Il vestito "finto sobrio" dell'ex avvocato del popolo

Il restauratore. Quando Giuseppe Conte comincia a parlare le undici sono passate da alcuni minuti. Montecitorio sembra rintanarsi in una bolla del tempo perduto. Fuori la piazza è un rumore di fondo. La parola d'ordine è fare finta di nulla. Il premier che ritorna non è lo stesso di prima. Non sorride. Non si perde. Non ha sul volto lo stupore del debuttante. Il ruolo è lo stesso, ma la commedia diversa. Non c'è più sul palco l'avvocato del popolo, al suo posto si presenta il ministro della sobrietà. La prima battuta è un atto di cortesia: salutare e benedire il presidente Mattarella. La seconda e via a seguire serve a riportare la politica al centro del Palazzo. Dimenticate spiagge e grigliate. Dimenticate i social, le tavolate, i video fai-da-te, le battute da bar, felpe e divise. Dimenticate, sottinteso, pure i blog delle stelle e la democrazia diretta. Rousseau non abita più qui. Il Conte bis è un pranzo di gala. I cittadini (come i bambini) ci guardano. Allora, signori, si apre una nuova stagione, che si porta dietro le immagini di deputati e senatori rubicondi, con le cravatte marroni su camicie bianche, i vecchi video di tribune politiche, i nastri alle inaugurazioni e i primi piani in bianco e nero senza selfie. L'ambizione è recuperare «con umiltà e contando sull'aiuto di tutti, un metodo di condotta politica che valorizzi, traendo ispirazione dal nostro migliore passato, equilibrio e misura, sobrietà e rigore».

Il discorso per la fiducia si dilunga per chiudere una parentesi. È il sigillo di una restaurazione. Tutta la prima parte serve solo a questo. Non nomina mai Salvini. Lo evoca come un malcostume. «Vogliamo volgerci alle spalle il frastuono dei proclami inutili e delle dichiarazioni bellicose e roboanti. Io e tutti i miei ministri prendiamo il solenne impegno, oggi davanti a voi, a curare le parole, ad adoperare un lessico più consono e più rispettoso delle persone, della diversità delle idee. Ci impegniamo a essere pazienti anche nel linguaggio, misurandolo sull'esigenza della comprensione. La lingua del governo sarà una lingua mite».

Non lasciatevi ingannare. Mite non significa arrendevole. Conte è più furbo di quanto si pensi. È qui per durare. La speranza, sostiene, è di mettere in scena un progetto di lungo periodo. È un programma che punta a disegnare «la società che vogliamo consegnare ai nostri figli e ai nostri nipoti». Il Conte bis si vede come un padre della patria, un costituente, uno che su quella poltrona non ci vuole stare da precario. Non a caso tira in ballo Giuseppe Saragat. È il primo santino della sua nuova collezione. Saragat il socialdemocratico, Saragat al Quirinale, Saragat presidente dell'assemblea costituente, Saragat come voce rievocata dal passato per una «Repubblica dal volto umano». Saragat, insomma, come antidoto di Salvini.

Si va avanti così per un'ora e mezza. Conte smette solo quando si avvicina l'ora di pranzo. Tanto che qualcuno comincia a chiedersi se non ci sia una via di mezzo tra gli slogan brucianti di Matteo e l'orazione mite dell'avvocato Giuseppe. È come sentirsi continuamente stretti tra piazza e palazzo. Pazienza.

Il premier torna sul palcoscenico nel pomeriggio. Le facce di Franceschini e Di Maio sono da orazione funebre. Non sorridono neppure per una smorfia di noia. Il secondo atto prevede un Conte non più mite. C'è da rispondere alla Lega. Il volto umano della Repubblica non si è svegliato dalla pennichella. Il premier si è inacidito. Noi poltronisti? È lui che ha tradito. È lui l'assenteista, quello che in Europa non ci ha mai messo la faccia. È lui che non pensa al bene del Paese, ma si fa solo i cavoli suoi. È lui l'uomo di partito e non di governo. Il lui chiaramente è Salvini. Quando poi il leghista Garavaglia lo accusa di restare «imbullonato alla poltrona», la risposta di Conte suona più o meno così: che espressione volgare. Il finale di commedia si può affidare al deputato grillino Sergio Battelli, sconcertato all'uscita: «Quelli che stavano con noi ci insultano, quelli che ci insultavano ci applaudono.

È tutto surreale».

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