Cronache

La partita iva nel farmaceutico: "Aumentato l'uso di psicofarmaci"

Giulio Capruzzi, dopo 30 anni da dipendente, è stato costretto ad aprire una partita Iva: "Pochi diritti e tutti doveri"

La partita iva nel farmaceutico: "Aumentato l'uso di psicofarmaci"

Prima l’esperienza da dipendente. Trenta anni con lo stipendio fisso, i privilegi, le tutele in caso di malattia, ferie, paternità, infortuni e via dicendo. Poi la crisi, la ristrutturazione aziendale e il lavoro che da subordinato - per forza di cose - si trasforma in autonomo. “Sono un libero professionista da 10 anni”, si presenta con orgoglio Giulio Capruzzi, 55 anni, rappresentante nel settore farmaceutico. Ma le difficoltà di essere una partita Iva esistono. “Da tanti diritti - dice - si passa a tutti doveri”.

Aprire la partita iva è stata una scelta o una necessità?
“Necessità. Nel mondo farmaceutico, negli anni, si è modificato il modo di lavorare. Se qualche tempo fa la maggior parte dei contratti era di tipo subordinato, ora a causa della crisi si sono trasformati in accordi con p.iva”.

Dopo 10 anni da lavoratore autonomo, tornerebbe indietro?
“Ci sono vantaggi e svantaggi. C’è una maggiore autonomia nell’organizzazione lavoro ma anche una tassazione maggiore e troppe grane burocratiche. Io ricevo un lordo con cui devo far fronte a oneri come tasse, costi di gestione e via dicendo. La vita si è complicata tantissimo rispetto a quando ero un dipendente: devi conservare tutte alle fatture, tenere traccia delle spese e dei movimenti, pagare il commercialista. È molto più facile ricevere una busta paga e un bonifico in banca”.

E poi c’è l’Inps. Quanto pesano i contributi previdenziali sul suo reddito?
“Molto. E con la legge attuale non posso neppure riagganciare le attuali contribuzioni a quelle che ho maturato durante i 20 anni da dipendente. Un domani, quando si decideranno a mandarmi a riposo, riceverò due pensioni e non potrò cumularle”.

È vero, come si dice, che le partite iva sono tartassate?
“Da questo punto di vista i dipendenti sono più tutelati perché interviene l’azienda. La loro tassazione arriva al 42%. Per noi autonomi, invece, è un salasso: tra Inps e Irpef e via dicendo va in fumo il 60% del fatturato. Il carico è notevole. E parliamo solo di tasse dirette, senza contare quelle indirette”.

A fine del mese, quanto le rimane in tasca di quello che produce?
“Se va bene, il 40%. Il problema di chi ci governa non si rende conto che a muovere la giostra è il settore privato che produce Pil. I nostri politicanti dovrebbero tutelare chi in Italia decide di fare impresa, perché lo fa a proprio rischio. E invece ci guardiamo attorno e vediamo solo aziende che chiudono e imprenditori che si suicidano. Ma se dovesse crollare il settore privato, chi pagherà per mantenere quello pubblico?”

Chi fa impresa dovrebbe avere una tassazione minore rispetto ai lavoratori subordinati?
“Sì, perché c’è il rischio d’impresa da sostenere”.

Quale può essere una soluzione?
“Bastarebbe un segnale: lasciarci scegliere a chi versare i contribuiti. Quelli dell’Inps sono un’imposizione troppo onerosa. Sarebbe ottimale avere la possibilità di rivolgersi ad un ente privato per un’assicurazione pensionistica”.

Lei lavora nel settore farmaceutico. È vero che nell’ultimo periodo è aumentato l’utilizzo di anti-depressivi?
“Posso confermarlo. Prima si faceva fatica ad arrivare al 27 del mese, ora si suda per raggiungere il 15. È normale che poi si cerchi sostegno nelle medicine”.

Se le offrissero un contratto a tempo indeterminato, guadagnando però meno di quanto incassa oggi, accetterebbe?
“Oggi mi ritengo fortunato a lavorare con un’azienda che mi permette di vivere decorosamente e di gestire il lavoro come meglio credo. Onestamente non negozierei più tutele per minori incassi. Ma se fosse a parità di retribuzione, allora sì.

Firmerei”.

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