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Il riflesso vittimista

Ieri il senso di battaglia non ancora vinta stingeva su tutto. Persino sulle maleodoranti mimose

Il riflesso vittimista

Ieri il senso di battaglia non ancora vinta stingeva su tutto. Persino sulle maleodoranti mimose. Un continuo dire, scrivere, twittare che qualcosa è stato fatto ma molto manca ancora. Mentre le immagini delle televisioni e le foto dei giornali indugiavano su una delle più alte cariche dello Stato (donna), il premier Giorgia Meloni, sul capo dell'opposizione (donna), la segretaria del Pd Elly Schlein, sulla senatrice (donna) Liliana Segre e su altri fulgidi esempi di donne ai vertici. Dalla presidente della Consulta (donna), Silvana Sciarra, all'emblematica per eccellenza (non che ci sia bisogno di andare sulla Luna per trovare una signora straordinaria) Samantha Cristoforetti, comandante della Stazione Spaziale Internazionale, (donna). La quarta persona più ricca d'Italia è l'imprenditrice farmaceutica (donna), Massimiliana Landini Aleotti, che possiede la Menarini, la settima è la stilista (donna) Miuccia Prada.

Ci sarebbe piaciuto che qualcuno, finalmente, ieri si dicesse soddisfatto e riconoscesse a chi di dovere ciò che c'era da riconoscere, ma l'aspirazione si è schiantata contro la realtà. «Lotto» marzo è stato, è e sarà sempre il pretesto per scatenare le penne in una rumba di luoghi comuni. L'occasione perfetta per sguazzare tra l'indignazione di genere come una carpa in un laghetto giapponese. E dire che fino al giorno prima (e di certo di nuovo dal giorno dopo) gli stessi giornali e le stesse televisioni sono stati e saranno pieni di evidenze di tutt'altro tenore: le storie delle studentesse iraniane, delle donne afghane e di quelle che vivono nei Paesi islamici africani. Poi arriva l'otto marzo, e il riflesso è immediato come per il cane di Pavlov. La bussola incostante che ci guida ci porta fuori rotta, la sensibilità non trova campo e le donne da spingere, proteggere, affrancare diventano quelle italiane. Non che si voglia rifiutare la tutela, né ignorare il fatto che non tutte le donne del nostro Paese viaggiano alla stessa velocità, sulle stesse rotaie, nelle medesime condizioni. Ma forse è (anche) il tempo di dire che in Italia la parità esiste. Basta sapersela prendere.

Questo arrivare tutti gli anni al solito anniversario facendo finta di essere sempre allo stesso punto, è una cosa che prima di tutto rovina la festa a quelle che andrebbero celebrate (e sono ormai tante), è un modo per inchiodare il Paese a trent'anni fa, ed è un mezzo subdolo e violento per pretendere dalle donne sempre di più. «Molto dev'essere ancora fatto», «La Meloni faccia davvero qualcosa per le donne», «Deve cambiare il vento del potere» Vedere che ancora l'estetica e la sostanza dell'otto marzo hanno fatto così pochi passi avanti, che ancora sono rimaste là, sepolte sotto la slavina degli anni, è una cosa che appende le lacrime nella grotta della gola. Perché l'Italia è piena di donne che non hanno bisogno di una festa di genere.

E qualcuno lo dovrebbe riconoscere.

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