Cronache

L'assist di Patronaggio alle Ong: "I porti libici non sono sicuri"

Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio a Roma risponde in audizione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera: "I porti libici non possono essere considerati sicuri". Intanto l'indagine su Carola Rackete va avanti

Carola Rackete, la capitana di SeaWatch
Carola Rackete, la capitana di SeaWatch

Mentre la procura di Agrigento è ancora una volta sotto i riflettori sul caso Sea Watch ed all’interno del palazzo di giustizia proseguono le indagini su Carola Rackete, il procuratore della città dei templi Luigi Patronaggio è chiamato a parlare a Roma nel corso di un’audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera.

Un’audizione importante per il magistrato impegnato nell’ultimo anno con alcuni dei casi più spinosi riguardanti il fenomeno dell’immigrazione: dal mancato approdo della Diciotti al braccio di ferro con la Mare Jonio, fino all’ultimo episodio che riguarda per l’appunto la nave Sea Watch 3 e che fino a ieri tiene impegnato Patronaggio per via dell’interrogatorio alla Rackete.

È per questo forse che la Commissione Affari Costituzionali vuole sentire il procuratore di Agrigento sul decreto sicurezza bis. E di certo lo stesso Patronaggio non manca di dare spunti non indifferenti, alcuni dei quali riguardano per l’appunto il caso Sea Watch.

A partire da un passaggio importante dell’audizione del magistrato, inerente la considerazione da attribuire ai porti della Libia: “Quelli libici – dichiara infatti Patronaggio, così come riporta l’agenzia Agi – Non possono essere considerati sicuri. Non sono porti dove il migrante possa avere garantiti tutti i diritti fondamentali della persona”.

Una frase che subito crea “rumore”: proprio nel corso della conferenza stampa immediatamente successiva all’interrogatorio di Carola Rackete, Patronaggio afferma che la sua procura è impegnata nella verifica della sicurezza dei porti libici. Questo perché gli inquirenti vogliono verificare i motivi per i quali la Sea Watch è presente in acque Sar libiche e, conseguentemente, capire se vi sono contatti tra la Ong e gli scafisti.

Un passaggio importante dell’inchiesta, un binario parallelo rispetto all’indagine che vede coinvolta Carola Rackete per lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza avvenuto nella notte tra sabato e domenica a Lampedusa. Un filone che vede la stessa Rackete indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La procura di Agrigento, in questi giorni, sta acquisendo tutto il materiale necessario per proseguire lungo questo sentiero delle indagini, i cui contorni vengono tracciati soprattutto nelle ore a cavallo dell’interrogatorio della ragazza tedesca.

Ecco quindi perché la dichiarazione di Luigi Patronaggio suona come molto importante sotto un profilo mediatico e non solo. Una considerazione, quella sui porti libici, in linea con quanto affermato dal ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, secondo cui scandagliando il diritto internazionale “si riscontrano oggettivi elementi che non possono far considerare la Libia come porto sicuro”.

Ma è anche vero che l’affermazione di Patronaggio sopra riportata può in qualche modo essere rilevante solo in minima parte per quanto concerne l’inchiesta attualmente in corso su Carola Rackete.

Lo stesso procuratore infatti, proprio poco dopo l’interrogatorio della capitana della Sea Watch, fa sapere di non riscontrare al momento elementi che possano portare ad un qualche stato di necessità volto a giustificare non solo la forzatura della Rackete di entrare a Lampedusa, ma anche la presenza stessa della Sea Watch in acque di competenza libiche.

I porti libici possono anche considerarsi non sicuri dunque, ma è la stessa procura di Agrigento a voler verificare il motivo della presenza del mezzo dell’Ong nella Sar libica. Anche perché, a prescindere, la Sea Watch si vede rigettare, nel corso dei 15 giorni di permanenza in alto mare, sia un ricorso al Tar e sia uno alla Cedu in cui ad essere chiesto in entrambi i casi è il via libera all’ingresso in acque italiane.

Un indizio che porta la procura agrigentina a non ravvisare gli estremi dello stato di necessità per l’approdo a Lampedusa.

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