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Sette anni di prof e Pd ma lo spread resta il re

Sette anni di prof e Pd ma lo spread resta il re

Siamo tornati, con le aggravanti, alla situazione del giugno 2011. Quando la tempesta dei mercati finanziari, alimentata da vendite massicce di debito pubblico italiano e dalle agenzie di rating che lo degradavano, fecero salire sempre più lo spread.

Giornali ed economisti collegati alla sinistra e a gruppi finanziari anti berlusconiani allora attaccavano il governo del premier Berlusconi, sollecitandolo a fare le riforme secondo loro necessarie per risolvere i nostri problemi connessi al debito pubblico, che era al 118% del Pil. Quali? Non la riduzione delle imposte sul risparmio ma la tassazione patrimoniale immobiliare. Inoltre si volle bloccare il progetto di sviluppare la banda larga mediante l'apporto di società private e una «golden share» del governo, togliendo a Telecom il monopolio, che essa voleva mantenere pur non avendo mezzi per estendere ovunque la rete. Al governo Berlusconi fu impedito di fare queste e altre riforme, fra cui la legge sui contratti di lavoro aziendali e locali in deroga ai contratti nazionali (che il presidente Napolitano bocciò) mentre il piano di cessione al mercato di beni demaniali e di privatizzazioni, mirante a ridurre il debito pubblico, fu ritenuto fuori tempo massimo.

Vennero il governo tecnocratico di Monti a guida Pd con la tassazione patrimoniale immobiliare che creò la crisi edilizia e una conseguente grande depressione, la riforma Fornero col caos degli esodati, poi i tre governi Pd di Letta, Renzi e Gentiloni. Nei sette anni il debito pubblico è salito al 132 per cento del Pil, il Jobs Act ha ingessato il mercato del lavoro, le infrastrutture sono state bloccate da procedure macchinose e giustizialiste, il bilancio pubblico piange perché i governi Pd han continuato a fare dei deficit basati sulla spesa corrente e sui bonus fiscali, allo scopo illusorio di far crescere l'economia pompando la domanda.

Invece occorreva e occorre ridurre le imposte progressive sul reddito e i dirigismi burocratici che bloccano l'offerta e fanno uscire dall'Italia lavoro qualificato e risparmi. L'aumento del debito ha bloccato il credito bancario e ridotto il denaro per l'economia. Ora bisogna sterilizzare la clausola di salvaguardia dell'Iva e ridurre il deficit di un altro 0,3 per metter in sicurezza il debito e difendere il risparmio. Occorre introdurre i liberi contratti aziendali e far partire le opere pubbliche per ridurre la disoccupazione salita dall'8 al 12 per cento e aumentare la crescita, specie nel Mezzogiorno. Esso ha fame di infrastrutture. Ma esse occorrono anche nel Centro-Nord. Piemonte e Lombardia hanno bisogno della Tav e altre opere per fare del porto di Genova la struttura portante del traffico dall'Oriente che ora transita dal canale di Suez raddoppiato.

Dunque mancano proprio le riforme del governo Berlusconi di allora, che si ritrovano nel programma del centrodestra, incluso lo snellimento della legge sugli appalti e del suo macchinoso controllo giudiziario. Ciò mentre i pentastellati vogliono di nuovo bloccare le grandi e medie opere e accrescere i controlli con altre misure giustizialiste.

L'articolo 81 della Costituzione nuova versione, introdotto dal governo Berlusconi, prescrive il bilancio in quasi pareggio per difendere il risparmio. Con questa «linea del Piave», il presidente Mattarella ha posto il veto a un ministro dell'Economia che voleva aumentare il deficit per far crescere il Pil. Ora urge un governo a tempo o duraturo che faccia un Def, un Documento di bilancio conforme all'articolo 81, per metter in sicurezza l'economia. Le riforme si faranno dopo. E quella della Fornero e la flat tax, come ho spiegato in due libretti «Fuori dal coro» editi da Il Giornale, possono esser fatte con senso della misura senza deficit.

Votare il Def implica di scegliere il principio «prima il risparmio degli italiani» anche se non si dà la fiducia al governo.

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