Politica

La sirena-sondaggi e i due forni leghisti

Il Carroccio si barcamena fra l'alleanza nazionale coi 5s e quelle locali con il centrodestra. Ma non può durare

La sirena-sondaggi  e i due forni leghisti

Addirittura per avere lumi o, più semplicemente, una bussola per orientarsi nel difficile momento politico, Cinzia Bonfrisco, senatrice leghista in quota liberali, è salita nel weekend al Nord per parlare con il plenipotenziario del Carroccio, Giancarlo Giorgetti. Ex parlamentare di Forza Italia, la Bonfrisco è una degli orfani del centrodestra a cui l'alleanza di governo sta stretta, specie dopo il moltiplicarsi degli scontri quotidiani con i grillini. Giorgetti, ormai calato nei panni del vecchio saggio della Lega, l'ha confortata: «Vedrai, passata l'ubriacatura per i sondaggi, in un modo o nell'altro, il quadro dell'alleanza del centrodestra si ricomporrà...».

Una risposta esauriente sull'epilogo finale, ma per i tempi enigmatica come i vaticini dell'oracolo. O meglio tutti sanno quale sarebbe la tabella di marcia preferita da Matteo Salvini. «Elezioni politiche - spiega la Bonfrisco - insieme alle Amministrative del 2020: un anno per avvicinarci ai 5 stelle, un altro per allontanarci». E lei, che ha un'esperienza in politica di tutto rispetto, è ancora convinta che sarà quello il calendario, tant'è che è già pronta a fare un balzo nel Parlamento europeo nelle elezioni di primavera. Insomma, per ora Salvini intenderebbe andare avanti con la politica delle doppie alleanze: a livello locale con il centrodestra, a livello nazionale con i grillini. La conferenza stampa di oggi, insieme a Berlusconi e alla Meloni, e la probabile vittoria del centrodestra di domenica prossima in Abruzzo (a stare ai sondaggi) saranno solo un segnale per il futuro. Nulla di più, perché il leader della Lega continua a predicare in pubblico lo «strabismo» tra alleanze locali e quella nazionale. Una riedizione, nei fatti, della politica del Psi di Craxi negli anni della prima Repubblica, che prevedeva il governo con la Dc a Roma ma non disdegnava la collaborazione in Regioni e Comuni con il Pci. Come all'epoca il potere era usato, almeno negli intenti, dal segretario socialista per riequilibrare i rapporti di forza con il Pci e ristrutturare la sinistra sotto l'egemonia socialista (progetto fallito per Tangentopoli), così oggi Salvini attraverso nomine, potere, consenso, vuole ridisegnare il centrodestra a propria immagine (per esempio, Silvia Sardone, eletta alla Regione Lombardia nelle file di Forza Italia, sarà candidata alle Europee dalla Lega). «Salvini sta facendo lo stesso gioco - conferma La Russa, uomo forte di Giorgia Meloni - ma Craxi lo faceva con sale in zucca, mentre lui gioca tutto sull'emozione. Per cui fino alle Europee si andrà avanti così, dopo però può succedere di tutto».

E già, l'intenzione - salvo imprevisti dettati dall'imperizia degli alleati - è quella di mantenere l'alleanza congelata sicuramente fino al voto per il Parlamento di Strasburgo, ma proprio lo sforzo che si farà per superare i tanti ostacoli di questi mesi finiranno per logorarla per «il dopo». Grillini e leghisti saranno obbligati nei prossimi due-tre mesi a stare sicuramente insieme per tramutare in legge i decreti simbolo su reddito di cittadinanza e «quota 100», ma il calendario è pieno di scadenze su cui i due partiti sono agli antipodi. In politica estera la crisi venezuelana ha fatto esplodere le contraddizioni interne alla maggioranza: ieri due parlamentari leghisti sono stati contestati nella manifestazione davanti a Montecitorio contro Maduro. Resta il collante dell'antieuropeismo estremo, che alla prova dei fatti, però, spesso si è trasformato in un handicap per il governo.

Poi, c'è il voto in Senato sull'autorizzazione a procedere contro Salvini: la maggioranza dei 5stelle è orientata a votare contro in aula. Ma il salvataggio dell'alleato aumenterà il malcontento nell'ala «movimentista» e imporrà a quella governativa una giravolta acrobatica. Ieri il sottosegretario all'Interno Carlo Sibilia, il primo a schierarsi per il processo a Salvini, ha avuto un goffo ripensamento: «Ho letto bene le carte e mi sono convinto che dobbiamo dire no all'autorizzazione».

Altra questione è la decisione sull'autonomia di Lombardia e Veneto, che, sia pure lentamente, continua a slittare di settimana in settimana. E ancora c'è il caso Tav, su cui Di Maio è obbligato a dire no da Di Battista e Fico, mentre Salvini è costretto a dire sì (la Liga Veneta è già in rivolta). Il governo tenterà di rinviare la decisione dopo il voto europeo, ma il tema resta incandescente tanto da provocare «gag» da avanspettacolo: due giorni fa Toninelli ha consegnato lo studio che considera la Tav «un'opera inutile» all'ambasciatore francese, senza trasmetterlo a Salvini che si è lamentato in pubblico. Siamo al gioco delle tre carte, al nascondino. Infine c'è la situazione economica che secondo il «barometro» va verso un peggioramento: anche i prossimi mesi rischiano di confermare la fase di recessione.

Tutto questo esploderà all'indomani del voto europeo. Salvini punta sul fatto che una forte vittoria della Lega (parlano di un 36%) e un drastico ridimensionamento elettorale possa rendere i grillini più malleabili (i sondaggi li danno già 10 punti sotto le Politiche) e aprire la strada a un nuovo programma di governo gialloverde più verde e meno giallo. Un discorso che potrebbe valere per l'ala «governativa»: «L'importante per me - ammette Alessio Mattia Villarosa, sottosegretario grillino all'Economia - è che questo governo duri cinque anni. Poi chi se ne frega». Ma è chiaro che la sconfitta elettorale farà insorgere Fico, Di Battista e gli altri. «A quel punto - continua a ripetere in Transatlantico il viceministro allo Sviluppo economico Dario Galli - i grillini si spaccheranno. È fatale».

Se ciò avvenisse resterebbero in piedi solo due ipotesi: le elezioni; o una maggioranza che metta insieme il centrodestra con i grillini contrari al voto, che piace poco, davvero poco, al leader leghista. Ma, si sa, spesso bisogna fare di necessità virtù. «Le elezioni troveranno Mattarella contrario - osserva il leghista marchigiano Luca Paolini -: a quel punto o Matteo scende in campo in prima persona per Palazzo Chigi mettendo insieme il centrodestra e i grillini che non vogliono le elezioni; o tornerà fuori lo spettro del governo tecnico». Una prospettiva avvalorata da un altro esponente leghista di peso, con una «variabile» che come un fiume carsico ogni tanto riecheggia nei corridoi del Parlamento: «Se il capo dello Stato sbarrerà la strada per le elezioni, toccherà a Matteo. O, magari, se non volesse tornare insieme al vecchio centrodestra con il Cav, potrebbe andare a Bruxelles, alla Commissione, fare la sua battaglia in Europa e poi guidare un centrodestra di marchio leghista alle prossime politiche».

Appunto, quello che Giorgetti chiama «la ricomposizione» del centrodestra, potrebbe avere mille passaggi e mille facce.

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