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Un suicidio industriale con tanti colpevoli

Un suicidio industriale con tanti colpevoli

E alla fine vedrete che per la chiusura dell'Ilva non ci sarà nessuno responsabile. Ma non è così. La mortificazione del più importante stabilimento di produzione di acciaio in Italia, ha dei colpevoli ben identificati: magistrati, politici e grandi giornali che non hanno avuto il coraggio di dire che quell'impianto è un pezzo fondamentale dell'industria italiana, che per quell'impianto non c'è ancora una sentenza, si dica una, che dimostri il supposto disastro ambientale. Non c'è stato nessuno, a parte il nostro foglio, che abbia scritto a chiare lettere ciò che un altro uomo d'acciaio come il Cavalier Lucchini ha sempre sostenuto, e cioè che Emilio Riva era il più bravo di tutti nel gestire quel mastodontico impianto di Taranto, quegli altiforni che non si accendono e spengono con un interruttore, ma grazie a investimenti milionari.

Ieri la cordata franco-indiana che voleva investire più di tre miliardi nel suo ammodernamento ha rescisso il contratto siglato un anno fa. Il governo dice che non sarebbe nelle sue facoltà. La verità è che il Parlamento ha tolto lo scudo penale ai nuovi proprietari con una indecorosa, ma politicamente corretta, legge approvata il 3 di novembre. Come fanno i dirigenti di ArcelorMittal a rispondere di ciò che può arrivare dalle condotte passate, sostengono con buone ragioni, e con l'avallo del sindacato, i nuovi proprietari? Proprio in queste ore il tribunale penale di Taranto ha imposto prescrizioni talmente dure nella conduzione degli impianti da costringere lo spegnimento di un altoforno. Insomma chi mette le mani là dentro ci lascia le penne. Lo capisce anche un bambino. Pensate un po' voi se un gruppo presente in tutto il mondo, con un mercato che non tira, e con obblighi economici importanti, si può sentire trattato così. E d'altra parte anche se questo fosse un comodo alibi dei franco-indiani per scappare, è una follia fornirlo su un piatto d'argento.

Ma la storia inizia da molto prima: nel luglio del 2012, quando vengono arrestati i Riva, alcuni loro manager e viene sequestrato il cuore della fabbrica. E i responsabili sono gli stessi, anche se i loro cognomi sono cambiati. Un pezzo del Pil italiano muore perché lo ha deciso una magistratura che, ripetiamo, senza alcuna decisione definitiva, ha stabilito che l'Ilva fosse un disastro e i Riva il mostro. E la politica è stata zitta, silente. Imbarazzata. Quella magistratura che si è accanita senza una logica, se non quella dell'ideologia antisviluppista e che poi ha trovato nei Cinque stelle un alleato naturale. Uno dei suoi attori si è poi candidato a sindaco di Taranto, appoggiato da Rifondazione comunista. Hanno ritenuto di sequestrare l'acciaio già prodotto, per un valore di 1,2 miliardi di euro, sui piazzali, perché considerato corpo del reato. Dove è il buon senso, urlava Mario Scialoja su L'Espresso. Hanno realizzato perizie epistemologiche, smontate dai procedimenti. Riva porta Tumori. Ilva Uccide. La sola Federacciai protestava, con l'allora presidente Antonio Gozzi nel silenzio della politica, della sua stessa stampa, l'assassinio economico e politico che si stava commettendo. Abbiamo espropriato un'impresa al suo legittimo proprietario, sperando che tre commissari potessero fare ciò per cui non sono pagati e cioè gli imprenditori. Hanno bruciato i quattro miliardi di euro di patrimonio di cui l'azienda disponeva nel giro di pochi anni. E lì boccheggiante, in extremis, è stata trovata la soluzione ArcelorMittal. Nonostante le bizze dell'allora ministro dello Sviluppo economico, vien da ridere, Luigi Di Maio. L'acciaio non sono le cozze pelose. Eppure era proprio questa la vocazione che si sarebbe dovuta attribuire a quella zona, secondo l'ex ministro grillino, per lo più con la delega al Sud, Barbara Lezzi. Questi non sono sconsiderati. Peggio. Oggi ci spiegano che le tasse sulla plastica serviranno a riconvertire al green l'industria emiliana. Ieri dicevano che l'Ilva - vero presidente Emiliano? - doveva andare a gas. Quanti posti di lavoro dovremo sacrificare sull'altare dell'ecologicamente corretto?

Provate a gestire un altoforno, provate a pagare 15mila cedolini di busta paga al mese, provate a trovare governi e prescrizioni che cambiano ogni anno, provate a combattere la concorrenza cinese e indiana senza regole ambientali, provate a finire sempre e solo sui giornali come untori del cancro, provate a vivere schifati financo da quei quattro burocrati senza azienda che pretendono di rappresentarvi, e poi ne parliamo.

Questo è l'articolo che non avremmo mai voluto scrivere. Ma è anche un pezzo che era già scritto, quando magistrati, politici e giornalisti nel luglio di sette anni fa si avventarono sui Riva e sull'Ilva. Ora è necessario davvero un miracolo. Altrimenti ci saranno almeno quindicimila padri o madri disoccupati che dovranno spiegare ai propri figli che quella cavolo di borraccetta in metallo che gli hanno dato a scuola è fatta in Cina.

E che molti come loro hanno perso il lavoro perché le bottigliette di plastica sono diventate come l'amianto.

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