Cultura e Spettacoli

Che noia avere per papà Michele Serra

Nel nuovo romanzo la firma di "Repubblica" si trasforma da rivoluzionario a genitore che odia la modernità

Che noia avere per papà Michele Serra

Non è vero che i comunisti mangiano i bambini, peggio: giunti a un certa età dedicano loro un libro inutile in forma di lettera, magari per parlargli del Sessantotto, come fece Mario Capanna. In genere però l'imprinting va bene e non c'è bisogno del libro: a Dario Fo nasce Jacopo Fo, a Walter Pedullà il giovane Gabriele Pedullà, mentre solo a destra spesso nascono comunisti. L'unico figlio ribelle lo racconta Michele Serra nel suo romanzo Gli sdraiati, edito da Feltrinelli (pagg. 108, euro 12). Gli sdraiati sarebbero i giovani di oggi, gli eretti quelli come Serra. Una lagna di cento pagine che ha innescato la solita seduta di autoanalisi intellettuale sulla sinistra, sui valori, sulle generazioni, sui padri e sui figli, dove perfino Antonio Polito si è schierato dalla parte del figlio. Già l'incipit è emblematico: «Ma dove cazzo sei? Ti ho telefonato almeno quattro volte non rispondi mai. La sequela interminata degli squilli lascia intendere o la tua attiva renitenza o la tua soave distrazione: e non so quale sia, dei due “non rispondo”, il più offensivo». Non c'è suocera, non c'è moglie petulante che regga il confronto con Michele Serra. Il quale va dietro a questo povero ragazzo ogni secondo, gli lascia post-it in giro per casa per dirgli di pulire gli sputi di dentifricio nel lavandino, di pulire bene il water, di non lasciare i peli nel bidet (ma Serra non può permettersi una colf?), gli conta perfino le cicche di sigarette nel portacenere. Una sigaretta cade e Serra la contempla, pensa come il Furio di Carlo Verdone: «Dalla piccola catasta è tracimata qualche unità ribelle, rotolata sul tavolo o caduta per terra».

Quando Serra guarda il figlio pensa: «Tu sei il consumista perfetto. Il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda...». Si noti: la dittatura sarebbe l'occidente capitalista. Essere figli di comunisti è un'esperienza terrificante. A Serra non sta bene cosa mangia il figlio, chi frequenta, quanto dorme, cosa ascolta nell'iPod, cosa guarda in televisione (uno pensa chissà quale orrore, invece vede i Griffin e i Simpson, e la fidanzata CSI, dei giovani svegli). Fissa inorridito «il computer che sobbolle sul letto». Non gli sta bene come si veste perché si veste uguale, estate e inverno, e rivolgendosi ai giovani scrive: «l'orbita della Terra attorno al Sole vi è estranea, vi vestite allo stesso modo quando soffia il blizzard e quando il sole cuoce il cranio». A Serra è estraneo che le stagioni astronomiche non dipendono dall'orbita intorno al Sole ma dall'inclinazione dell'asse di rotazione terrestre, quindi lasci in pace il figlio e studi lui. Ok, ma cosa vorrebbe fare questo padre da incubo con il figlio? Un viaggio a Las Vegas? Una bella partita con lui a Call of Duty? Magari. Due cose fondamentalmente: la prima, portarlo a vendemmiare il Nebbiolo, per condividere l'esperienza della vendemmia. Giustamente il figlio dice ma vacci tu. Alternativa: portarlo a scalare un montagnozzo, chiamato Colle della Nasca: «Tu non hai idea di come ti farebbe bene, sono sei ore di cammino: non troppe, non troppo poche. Si sale, si sale, si sale lungo il sentiero... Poi ancora si sale, si sale sopra i duemila, nella pietraia interminabile...». Anche qui al figlio giustamente non può fregare di meno, al lettore men che meno, e quindi finita lì? Figuriamoci, parte un tormentone asfissiante su questo Colle della Nasca. Pagina 33: «Quando ti vedo così pallido, penso ti farebbe molto bene venire con me al Colle della Nasca» eccetera eccetera. Pagina 41: «Se non vieni con me al Colle della Nasca non fai un dispetto a me, lo fai a te stesso». Pagina 49: «Se vieni con me al Colle della Nasca ti pago». Pagina 69: «Di' la verità, tu muori dalla voglia di venire con me al Colle della Nasca. Ma pur di non darmi soddisfazione ti ostini a fingere di non averne voglia». Non so, dobbiamo ridere? Dobbiamo riflettere? È una storia strappalacrime perché alla fine il figlio cede e ci va, su questo Colle, e mentre salgono salgono salgono si deve sorbire le prediche sui jeans, sulle scarpe non adatte, sul cappellino: «Hai tirato fuori dallo zainetto un tuo berretto da rapper. Te lo sei messo con la visiera al contrario, non ho potuto evitare di farti notare che la funzione della visiera è riparare gli occhi dal sole». «Io invece mi riparo la nuca» risponde il figlio, dimostrando di essere molto più spiritoso e intelligente del padre. Infine, tuttavia, non si spiega una cosa: stiamo parlando di un quattordicenne moderno, nato dopo la grande scoperta linguistica, possibile non ne faccia mai uso con questo padre? Insomma, come scrive perfino un gentleman come Alberto Arbasino: «Non fossero venuti prima della grande scoperta linguistica, potevano salvarsi anche Kafka e Gadda.

Uno al papà, e uno alla mamma: vaffanculo!».

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