Cultura e Spettacoli

Quel Bacon spietato che non andava giù ai critici conformisti

In "Trittico" Jonathan Littell analizza l'opera del grande pittore. Per il quale ogni immagine è una rappresentazione della morte

Uno dei vizi più comuni della critica marxista era interpretare le opere solo in base al loro significato politico, ideologico, sociale. A Kafka, per comprenderlo, si appiccicò l'etichetta di profeta dei campi di concentramento, a Nietzsche (e perfino a Sade), quella di ispiratore di Hitler. Immaginateli ospiti in un talk show dei nostri: «Signor Kafka, lei che ha scritto Il processo, cosa ne pensa del processo Ruby?». A Flaubert, a Joyce, a Beckett, né la Gruber né Formigli né Santoro saprebbero cosa chiedere, anzi non li inviterebbero neppure.

Questo per dire che Jonathan Littell non è uno scrittore sprovveduto, non un critico trombone, non un marxista né conservatore, eppure i presupposti per cadere nel luogo comune c'erano perfino per lui. Autore de Le benevole, uno straordinario romanzo sul nazismo (talmente bello che in Italia lo stroncarono in molti), il suo ultimo libro è uno splendido saggio su Francis Bacon, intitolato Trittico e pubblicato da Einaudi (pagg. 152, euro 23).

Se al posto di Littell ci fosse stata Lilli Gruber, avrebbe chiesto a Bacon se si era ispirato ai campi di concentramento. Se Littell andasse da Lilli Gruber, gli verrebbe chiesto se ha deciso di scrivere un saggio su Bacon per la medesima ragione. D'altra parte molti critici d'arte, dal secondo dopoguerra in poi, sono caduti nella trappola ideologica, quindi perché non doveva caderci Littell, colui che è riuscito a raccontare il nazismo dal punto di vista di un nazista?

Invece Littell sa che un genio è tale quanto meno è sociologico, contingente, quanto più riesce a essere universale, e Bacon rappresenta in pittura come pochi altri l'immagine della tragedia del corpo umano, l'esperienza più devastante che un organismo pensante possa vivere, la coscienza del dolore e della morte. «La vera immagine è sempre un'immagine di morte; lo si vede chiaramente nella fotografia, che tra le sue prime funzioni aveva quella di fornire alle famiglie immagini dei loro defunti». Littell cita anche Godard, che a sua volta cita Blanchot: «L'immagine, capace di negare il nulla, è anche lo sguardo del nulla su di noi». Avrebbe potuto felicemente inserire il Roland Barthes del meraviglioso La camera chiara, nel quale spiega perché ogni fotografia rappresenta la morte. Quanto a Bacon, affermava di non dipingere carne viva, ma carne macellata. C'entra con Auschwitz quanto con qualsiasi reparto d'ospedale, o con l'alzarsi dal letto la mattina e guardare la realtà al di là delle illusioni di salvezza, collettive e individuali.

«Francis Bacon era un uomo disperatamente consapevole della futilità di tutte le imprese umane» scrive Littell. «Della fragilità della carne, di quanto le più intense emozioni degli uomini siano fuggevoli e effimere, dell'infernale violenza che impregna ogni fibra della vita quotidiana». Lo stesso Bacon proferì una frase che suona beckettiana: «Il semplice fatto di essere nato è una cosa di estrema ferocia». Potrebbe averla detta Giacomo Leopardi, perché si sa: è funesto a chi nasce il dì natale.

E quindi trovarsi di fronte ai freaks di Bacon, ai corpi deformi che si contorcono sotto inquietanti strutture cubiche o in bilico su strani piedistalli, a queste figure sofferenti inghiottite nel nero della pittura, a quelle bocche sproporzionate, urlanti, a quei volti senza occhi, e vedere tutto ciò come la prefigurazione di una tragedia storica specifica è non capirne l'importanza, è ridurre l'arte a illustrazione, a didascalia della cronaca. Se poi ci si mettono i filosofi, peggio ancora. Quei mostri siamo noi, chiunque di noi, basta guardarli, basta comprendere il senso di un respiro.

Sebbene l'artista, odiato per anni dalla critica perbenista americana (la quale preferiva il più innocuo espressionismo astratto), fosse ben abituato ai fraintendimenti e al disprezzo, se ne fregava. «Il modo in cui la gente guarda al mio lavoro non è un problema mio, è un problema loro». E aveva ragione. I campioni delle visioni consolatorie ci sono sempre stati, e i dipinti di Bacon erano troppo «inquietanti, distorti, sinistri» per essere digeriti facilmente dai guardiani del vitalismo giulivo e impegnato. Altrimenti non sarebbe stato Bacon, ma un Guttuso qualsiasi, oppure un Beato Angelico fuori tempo massimo.

Così Littell ripercorre l'opera di Bacon con uno sguardo lucido, analitico, narrativamente appassionato, evitando facili sovrainterpretazioni, riportandola all'elementarità della sua grandezza universale. Per cui nemmeno le «crocifissioni» di Bacon c'entrano con il cristianesimo: il protagonista, l'oggetto, è sempre il corpo, il soggetto la pittura che lo scarnifica, lo denuda, ne mostra l'aspetto esistenzialmente terrificante. Eppure, anche qui, un giornalista, un Lilli Gruber francese, non si trattenne dal chiedere a Bacon se credesse in Dio.

E Bacon rispose: «No! Perché mi fa una domanda così stupida?».

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