Politica

Datemi anche del comunista. Ma stupratore no...

Non ci posso credere. Leggo e rileggo l’agenzia sul mio computer e mi viene da piangere. Non può essere vero. Ditemi che non può essere vero. Mio figlio mi guarda stranito mentre ho gli occhi fissi sul display. «Posso leggere?», mi chiede. Lo allontano con un gesto della mano. «No, figlio mio, sono cose che non devi sapere». Mi guarda spaventato mentre io rivedo il film della mia vita. La mia vita da comunista e da post comunista. Quante me ne hanno dette.
A casa nessuno era di sinistra e mio padre temeva che non studiassi più perdendo le ore nelle sezioni di partito. Nel mio liceo eravamo in tre e ne abbiamo prese di botte. I giovani fascisti a Bari negli anni Sessanta non scherzavano né te la mandavano a dire. Ricordo le domeniche al cineforum con i film sovietici prima che Fantozzi dichiarasse che la corazzata Potemkin era «cagata pazzesca». Una domenica ci sorbimmo «Tre canti a Lenin» di Tziga Vertov e poi un dibattito di tre ore. All’ora di pranzo mi era passato l’appetito e restai digiuno fino a sera. Poi tutti fuori dal Pci a litigare come pazzi fra di noi e con il Grande Partito.
Una sera, ero in un gruppo extraparlamentare molto di sinistra, bussò alla porta di casa mia sorella con suo marito e quattro amici. «Si passa una serata in compagnia», pensai. Erano venuti a dirmi che mi espellevano dal «Circolo Lenin» per deviazione trotzkista. Li mandai al diavolo. Poi il ritorno nel Pci. Il segretario della federazione che mi chiede di lavorare per il partito e io che lascio il posto ben pagato di redattore di Laterza per fare il funzionario politico. Mi mettono al lavoro in una stanza con un altro compagno. Il segretario regionale mi chiama con un campanello. Due squilli e tocca a me. Mi veniva da piangere. Ma il partito prima di tutto.
Anche quando mi dimisi per ragioni politiche da tutti gli incarichi e mi mandarono a Mosca per poter dire: «Il compagno è molto malato per questo ci lascia». Ma anche a Mosca non eravamo più trattati come raccontavano i vecchi compagni. Eravamo diventati ospiti mal sopportati. Prima di noi venivano i comunisti vietnamiti, quelli cubani, quelli francesi e anche il partito austriaco che aveva meno iscritti della sezione di Centocelle. Volevamo protestare, ma i compagni della Direzione ci dissero che dovevamo stare zitti. Mi rifiutati di firmare un documento di solidarietà all’Urss e di condanna dei dissidenti. Sperai, tornato in Italia di ricevere qualche lode, ma non mi si filò nessuno.
Al partito non si poteva dire di no. Dal partito si accettava tutto, per il partito ci beccavamo tutti gli insulti. Non c’era rovina del mondo che non venisse imputata ai comunisti. In America per decenni non ci facevano entrare. Poi arrivò Craxi e decise che eravamo una specie di rottame della storia. Sciogliemmo il Pci. Il giorno che votai per Occhetto la mia fidanzata dell’epoca mi mandò via di casa e mia sorella, quella che mi aveva espulso, non mi telefonò per tre mesi. Eravamo diventati traditori del movimento operaio. Per altri non avevamo fatto ancora niente. Comunisti eravamo e comunisti restavamo. Non si sapeva più che da parte sarebbe arrivata la botta. Noi con il nostro orgoglio ferito a ripararci dai colpi. Non voglio fare la vittima. Anche noi abbiamo avuto le nostre responsabilità. Io ne scrivo spesso. Ma quante ce ne hanno dette! Ce l’avevano con noi i garantisti perché ci vedevano troppo pappa e ciccia con i magistrati e i giustizialisti perché non accettavamo di santificare le Procure. Hanno fatto un girotondo lungo quanto l’Italia per darcela addosso a noi ex comunisti, per giunta troppo amici di D’Alema.
So che molti di voi, cari amici del «Giornale», non capiranno questo sfogo. Te la sei cercata, direte cinicamente. Ti sei dimenticato della rivoluzione ungherese? «Ma avevo dieci anni», cercherò di rispondervi. E i carri armati di Praga? «Li abbiamo condannati». Neppure a voi tutto questo basterà. Non c’è autocritica che ci salvi dalle colpe di essere stati un po’ leninisti, un po’ trotzkisti, un tantinello guevaristi, entusiasti delle guardie rosse e di quel pazzo di Mao. Quando Berlusconi ci diceva che eravamo rimasti comunisti, ci voltavamo indietro per dire: «Ce l’ha con me?». Niente placava la nostra sete di riscatto. Quando eravamo stanchi di essere insultati, ci insultavamo fra di noi. Arturo Parisi ci ha intimato per anni di scioglierci e quando ci siamo sciolti neppure allora si è accontentato. Non possiamo mettere gli occhi fuori di casa nostra che subito veniamo ricacciati indietro. Un gruppo di miei amici aveva urlato al telefono: «Abbiamo una banca!» e ci hanno trattati come se fossimo diventati allievi di Sindona. Figli di un Dio minore per sempre.
Ma quando ho letto quell’agenzia questo pomeriggio e il mio bambino mi ha guardato come quel ragazzino scrutava il «ladro di biciclette» di De Sica, ho pensato che non c’è rimedio, che non c’è fine alla nostra sofferenza. Mi hanno dato del comunista, del traditore della classe operaia, negli ultimi mesi mi hanno accusato di «concorso esterno in associazione berlusconiana». Ho sopportato tutto. Ma questa volta mi ribello. Ho letto che il senatore Ignazio Marino, dopo che hanno scoperto che lo stupratore del Torrino a Roma è un dirigente di circolo del Pd, ha detto che bisogna rinnovare il partito perché siamo afflitti da una profonda crisi morale. Qui ho deciso di ribellarmi. No, questa volta no. Parlo come Scalfaro: «Non ci sto». Ditemi tutto. Comunista, giustizialista, nemico di Andreotti, assassino di Craxi, nostalgico dell’Unione Sovietica, figlio del partito. Va bene tutto. Ma stupratore e socio di una congrega di stupratori, no. Sapete che vi dico? Caro Marino e compagnia bella, ma vaffa..

.

Commenti