Economia

E Sergio dà una "spallata" al compromesso Lingotto-Cgil

Gli accordi di Fiat con Chrysler ed eventualmente con Opel rinnoveranno anche il nostro sistema di relazioni sindacali. Raffaele Bonanni (nella foto) ha spiegato il nodo del momento: il vecchio sindacalismo fordista che puntava tutto sulle richieste salariali, perché allargavano i consumi e spingevano l’innovazione, non basta più. L’illusione di risolvere i problemi su scala nazionale, non fa che dare armi alla concorrenza globale, dalle imprese giapponesi o indiane agli operai polacchi o romeni. Il lavoro organizzato se vuole buona occupazione e solide prospettive deve pensarsi non tanto come controparte che provoca reazioni radicalizzando le richieste ma come parte intelligente della impresa, partecipare alla ristrutturazione e all’innovazione, persino «finanziariamente» come alla Chrysler. Deve esserci - dice Maurizio Sacconi - complicità tra capitale e lavoro.
Non serve un sindacato più debole ma un sindacato più «intelligente». In Francia dove i sindacati nel privato sono evanescenti ma persiste una cultura nazional-fordista e non ne è cresciuta come in Germania e Stati Uniti una partecipativa, i conflitti provocati dalle crisi in corso sono radicalizzati e con miseri sbocchi. In Italia, ci sono ancora forti isole di «sindacalismo di classe» che non si propone solo o tanto di migliorare le condizioni di lavoro, quanto - dice Gianni Rinaldini segretario della Fiom-Cgil - di «ricomporre l’unità della classe operaia» come antagonista della classe borghese. La gestione del conflitto non risponde tanto ai bisogni dello specifico luogo di lavoro ma a disegni politici. Certamente malandati: tanto è vero che la maggioranza degli operai vota per il centrodestra. Ma non per questo meno pericolosi. Non solo la Fiom-Cgil è forza di conservazione attiva e produce guai quando è influente come alla Fincantieri dove l’opposizione alla quotazione in Borsa della società, ne logora il destino. Ma la resistenza della Fiom è pericolosa perché non isolata. Un merito di Sergio Marchionne è stato, sia pur con qualche prudenza, di mettere in discussione il compromesso conservatore tra vertici del Lingotto e Cgil, con scambio tra privilegi per l’impresa e potere sindacale.
Solo qualche giorno fa Tito Boeri sulla Repubblica attaccava il ministro del Lavoro perché vuole incrementare strumenti bilaterali per gestire non solo le relazioni industriali ma anche aspetti chiave della produzione (dalla formazione alla sicurezza). Si distrugge così, si sosteneva, la limpida perfezione di un mercato tale solo se regolato da uno Stato asettico. Analoghe tesi vengono sostenute per assorbire di un botto le complesse articolazioni del nostro mercato del lavoro introducendo d’emblée un sistema alla danese di protezione universalistica di chi resta disoccupato, combinato con la libertà assoluta dei datori di lavoro. Come il radicalismo rivoluzionario, anche quello liberistico appaiono spesso coperture di sistemi corporativi radicati che con le ideologie più varie bocciano ogni misura concretamente riformistica.
Lo spazio per le coraggiose innovazioni di Marchionne non è cascato dal cielo.

È frutto di un nucleo preciso di persone, da Bonanni a Sacconi a Emma Marcegaglia, dalla testa dura.

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