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Ecco perché Sparkle non va commissariata

Il numero uno della Telecom, Franco Bernabè, difende le gestioni che lo hanno preceduto di Marco Tronchetti Provera e di Guido Rossi, e così difende se stesso. E soprattutto rinfresca un principio giuridico, che se dovesse venire accolto, avrebbe grandi ripercussioni nel futuro. Il principio è molto semplice e per molti versi forse banale: non è detto che il presidente, o il consiglio di amministrazione, sia automaticamente e oggettivamente responsabile di una reato commesso all’interno della propria azienda o da propri dirigenti infedeli. Insomma, può capitare che una truffa sia fatta senza che il capo lo sappia. Stiamo ovviamente parlando della vicenda Telecom Italia Sparkle, per la quale sono state indagate più di cinquanta persone, e che avrebbe generato quasi due miliardi di fatturato fittizio e circa 350 milioni di finti crediti d’Iva. Ma andiamo per ordine. I legali di Telecom, la professoressa Paola Severino e il professor Filippo Minacci, hanno costruito una difesa di una trentina di pagine, di cui il Giornale, è venuto in possesso, che cerca di allontanare lo spettro dell’interdizione e dell’eventuale commissariamento della società Telecom Italia Sparkle.
In Italia, infatti, da qualche anno c’è una legge, la 231, che disciplina la responsabilità amministrativa degli enti per gli illeciti commessi dai suoi esponenti di vertice. Si tratta di una bomba. Scrivono gli avvocati di Bernabè: «Mentre la misura cautelare personale comprime ma non annulla definitivamente la libertà dell’individuo, al contrario l’interdizione nelle sue varie forme e ancorché disposta per un periodo limitato è idonea a produrre effetti letali non voluti e quindi estranei e sproporzionati rispetto alla finalità della cautela».
Abbastanza chiari: se colpite Sparkle (ma il discorso vale ovviamente anche per Fastweb, sotto tiro per la medesima norma) rischiate di far fuori, uccidere legalmente una persona giuridica. Insomma una condanna di morte, senza ancora un giudizio definitivo. E per di più ad anni di distanza dal reato commesso. Gli avvocati di Telecom sostengono, inoltre, che oggi «manca del tutto il pericolo di reiterazione dell’illecito amministrativo». Si tratta anche in questo caso di posizione tutta da valutare. Basti pensare che per la medesima inchiesta sono in carcere (è il caso del fondatore di Fastweb Scaglia) manager che non sono più in azienda da anni e che per di più si sono presentati con le loro gambe alle porte della cella. Se la durezza dei magistrati colpisce le persone fisiche, c’è da temere che altrettanta intransigenza possa toccare anche alle meno «sensibili», nel senso di umane, persone giuridiche. Ma questo è ovviamente un altro discorso.
Ritorniamo alla difesa di Sparkle. Posto che la legge è in grado di prevedere una pena di morte per gli enti, i due professionisti si sono affrettati a elencare tutte le precauzioni che Telecom aveva adottato nel passato per evitare comportamenti truffaldini dei suoi dipendenti. Insomma, più chiaramente e semplificando: la 231 ti porta al patibolo, ma c’è una via d’uscita. Essa nasce quando un’azienda può dimostrare di aver fatto tutto quanto in suo potere per evitare il generarsi di una truffa. D’altronde anche nelle migliori famiglie ci può essere un figlio birichino. Ecco, gli avvocati di Bernabè hanno costruito la loro difesa non già negando l’esistenza del figlio birichino, ma cercando di dimostrare che Telecom era la migliore famiglia possibile, in termini di controlli e accortezze. Severino e Dinacci scrivono: «Sparkle ha adottato sin dal 3 novembre del 2003 (gestione Tronchetti per intendersi) e dunque in epoca antecedente gli illeciti contestati, un modello organizzativo volto a prevenire il compimento di reati che possano dare luogo a responsabilità ex 231 della Società». Insomma, Tronchetti Provera e i suoi avevano già costruito in tempi non sospetti una diga. E si elencano tutte le previsioni: il codice etico, i principi generali di controllo interno, i principi di comportamento, i sistemi di controllo, il sistema disciplinare e un organismo di vigilanza. Quest’ultimo organismo di vigilanza non era una barzelletta (come spesso sono i codici etici, che tutti sottoscrivono), «ma si poteva avvalere di tutte le strutture interne della società e del Telecom Italia Audit». Vabbè il concetto è chiaro. Così come l’innervosimento di qualcuno che è arrivato a leggere fino a questo punto. Ma come, si chiederà il lettore, tutte queste previsioni, questi orpelli organizzativi e le truffe come si sono realizzate? Ecco, questo il punto. Tutta la 231 e l’impalcatura di cui abbiamo parlato in perfetto stile bizantino in realtà non possono mettere una società al riparo da comportamenti truffaldini di un proprio dipendente. Ma può garantire che ciò non sia fatto con la connivenza dei vertici. È esattamente il punto su cui insistono gli avvocati di Bernabè. La Telecom da anni aveva un sistema di controlli talmente ben fatto, che gli eventuali illeciti commessi, sono stati fatti con i vertici della società necessariamente inconsapevoli, Ecco perché non si deve interdire Telecom Sparkle: essa è vittima dei truffatori perché ex ante ha fatto di tutto perché non si verificassero truffe.
Gli avvocati di Bernabè vanno oltre. Con gli anni il modello organizzativo si è evoluto, ma «va detto comunque che le modifiche di tale schema sono state limitate perché, come si è visto, le regole già previste erano complessivamente idonee a prevenire questo tipo di condotte (riciclaggio e ricettazione, ndr)».
I magistrati si sono presi tempo per decidere sull’eventuale commissariamento sia di Sparkle, sia di Fastweb. La legge 231 ha dato loro in mano un’arma terribile.

Dall'esito di questo processo si capirà se essa rischia di diventare un'arma di distruzione di massa.

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