Economia

Banche Usa, mina da 222mila miliardi

Con Trump sotto tiro, sale l'allarme per l'esposizione in derivati dei big americani

Banche Usa, mina da 222mila miliardi

Il campanello d'allarme è squillato con l'ultimo rapporto trimestrale firmato dall'Office of the Comptroller of the Currency (Occ), l'agenzia federale del Tesoro Usa che dai lontani tempi di Abramo Lincoln monitora il sistema del credito: le prime 25 banche a stelle e strisce sono sedute su una gigantesca montagna fatta di derivati, qualcosa come 222mila miliardi di dollari. Dodici volte il Pil americano. Scampati perché too big to fail all'estinzione, sorte toccata invece nel 2008 alla «piccola» Lehman Brothers, gli istituti a stelle e strisce non sembrano aver imparato nulla dalla crisi dei mutui subprime, dove proprio i derivati avevano avuto un ruolo preponderante nella sua deflagrazione. Così, a meno di 10 anni di distanza da quel disastro epocale, paragonabile al periodo funestissimo della Grande depressione degli anni '30, hanno ripreso a scherzare col fuoco. Soprattutto le top five (Bank of America, Morgan Stanley, Citigroup, Jp Morgan e Wells Fargo), dove si concentrano ben 200 dei complessivi 222mila miliardi di questi strumenti finanziari.

Non sono pochi, infatti, i nostalgici del Glass-Steagall Act, la legge abrogata nel '99 che separava nettamente l'attività bancaria tradizionale da quella investimento. Perché se prima la situazione era già di per sè ad alto rischio, ora diventa potenzialmente devastante nel caso Donald Trump finisse prima sotto impeachment - cioè in stato d'accusa - e poi destituito sulla falsariga di quanto accadde a Richard Nixon in seguito allo scandalo Watergate. Con il tycoon costretto a riconsegnare le chiavi della Casa Bianca, alcuni analisti non esitano a ipotizzare un effetto catastrofico per i mercati nell'ordine di un crollo del 40% di Wall Street. Più che un selloff scandito dal panico, una gigantesca ondata destinata a sommergere l'intero globo in una crisi sistemica. Esagerano? Forse. Ma resta il fatto che i derivati sono uno strumento buono per i giorni di Borsa col sorriso. Finché tutto va bene, cioè fino a quando i listini salgono e l'economia cresce, non hanno controindicazioni. Se però il vento gira, cominciano i guai. E qualche scricchiolio sinistro dell'economia Usa già si è sentito: rallentamento dei cantieri e dei mutui, mercato dell'auto in retromarcia, consumi fiacchi, debito delle famiglie a 12.730 miliardi (una cifra più alta rispetto al picco toccato durante la recessione del 2008), stipendi ancora compressi.

Dopo l'asfittica crescita del primo trimestre (+0,7%), il periodo aprile-giugno potrebbe riservare altre spiacevoli sorprese. E con Trump sotto tiro, sono precipitate al 69%, dall'88% dell'11 maggio, le probabilità di un rialzo dei tassi il mese prossimo.

D'altra parte, a consigliare prudenza alla Federal Reserve non dovrebbe essere solo il rallentamento dell'economia o le vicissitudini dell'inquilino della Casa Bianca, ma proprio l'andamento di Wall Street. La facciata felice, quella dipinta a colpi di record, maschera crepe profonde. «Aprite gli occhi», titola un fresco report di Goldman. Dove si fa notare che appena 10 titoli hanno garantito il 46% dei guadagni di quest'anno dello Standard&Poor's. Sono i soliti noti: le cosiddette Faang (Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google), più Visa, Philip Morris, Oracle, Home Depot e Broadcom. Le altre azioni quotate sono ferme. O, peggio, scendono. Le regine del mercato hanno finito per distorcere il modo di operare degli investitori professionali, che puntano fortemente su di loro, perché percepite solide quanto un T-bond a tre mesi. Una forma di investimento passivo, che però può diventare un boomerang. Se infatti la Borsa dovesse cominciare a sbandare per qualsiasi ragione, si assisterebbe alla vendita massiccia di quei titoli. Così, la caduta degli indici sarebbe amplificata.

E la valanga finale arriverebbe dalla montagna dei derivati.

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