Economia

La Fed rischia l'autogol sul Pil Colpa del minitaglio dei tassi

Per gli analisti Powell ha sbagliato a cedere a Trump: perde credibilità e spreca una cartuccia anti-crisi

La Fed rischia l'autogol sul Pil Colpa del minitaglio dei tassi

«Wrong way». Non sono pochi gli osservatori convinti che la Federal Reserve abbia imboccato una strada contromano con la decisione, presa giovedì scorso, di tagliare di un quarto di punto i tassi d'interesse. Non per una pura questione di perdita di credibilità, già ampiamente compromessa a partire da inizio anno con la scelta di abbandonare il processo di normalizzazione della politica monetaria. Saltato il doppio binario, quello costruito con quattro aumenti del costo del denaro nel 2018 e con l'azione di restringimento dell'ipertrofico bilancio, era da tempo chiaro che il lavoro ai fianchi compiuto da Donald Trump sul numero uno della banca centrale Usa, Jerome Powell, avrebbe presto dato i suoi frutti.

Per quanto The Donald ancora storca il naso di fronte a quella che considera un'azione di allentamento condotta da Eccles Building con tempi da bradipo, arrivando a minacciare nuovi dazi sulla Cina con l'unico intento di esercitare ulteriori pressioni sull'istituto di Washington, la Fed è ormai come un pugile stretto nell'angolo, incapace di staccarsi dalle corde. Powell può minimizzare, come ha cercato di fare l'altro giorno, spiegando che questa stretta è un aggiustamento di metà ciclo e non il primo tassello di una strategia più accomodante, ma non inganna nessuno. Sa benissimo che il detto «Don't fight the Fed» non vale quando di mezzo c'è il presidente degli Stati Uniti, l'unico che davvero può mettersi di traverso e «far la guerra» alla banca centrale.

Il tempo di resistenza della Fed prima della capitolazione definitiva, traducibile in almeno altri due giri di vite ai tassi entro fine anno, è l'unica incognita rimasta. Per il resto, giovedì Powell ha varcato il suo Rubicone. E ha sbagliato. Se l'obiettivo di Trump è trasparente, ovvero strappare un secondo mandato alla Casa Bianca facendo leva su un azzeramento dei tassi così da alimentare la crescita, resta invece ancora oscuro il motivo per cui un'economia definita «resistente» dalla stessa Fed e con una situazione di quasi piena occupazione, nonostante la risalita in giugno dei senza lavoro al 3,7%, abbia bisogno della stampella di un costo del denaro più leggero. Anche perché è tutto da verificare se la mossa della Fed servirà davvero a stimolare consumi e investimenti, e quindi anche a riscaldare l'inflazione, o non si tradurrà nel solito regalo fatto a Wall Street. Inoltre, la banca centrale americana ha così sparato una delle poche cartucce a disposizione. Gliene restano solo otto, cioè otto tagli dello 0,25% ciascuno prima che i tassi scendano a zero. Con il rischio di trovarsi senza più munizioni se la congiuntura dovesse peggiorare. In passato, l'istituto ha sempre evitato di attuare un allentamento monetario senza avere una riserva di almeno 400 punti base, il minimo per poter fronteggiare una recessione.

La Fed dovrebbe poi riflettere su un'altra questione molto importante. Nel lungo periodo di allentamento monetario successivo alla Grande crisi del 2008, gli Stati Uniti non sono mai riusciti ad agganciare una crescita annua del Pil attorno al 4% (lo scorso anno l'espansione si è fermata al 2,9% malgrado la rivoluzione fiscale di Trump), cosa al contrario regolarmente accaduta nei decenni precedenti con picchi anche superiori al 7% (vedi grafico). Sviluppo frenato mentre, in parallelo, si è verificata un'abnorme lievitazione della capitalizzazione del mercato azionario Usa, oggi pari al 145% del Pil, e all'esplosione del debito federale, arrivato a toccare i 22.500 miliardi di dollari, e di quello privato (19.765 miliardi). Tutti nodi, prima o poi, destinati ad arrivare al pettine.

Una Fed accondiscendente ai voleri di Trump potrebbe accelerare la resa dei conti.

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