Economia

Con i dazi in ballo la Fed resta ferma

L'incertezza sull'impatto delle misure protezionistiche condiziona i rialzi dei tassi

Con i dazi in ballo la Fed resta ferma

«Grande è la confusione sotto il cielo: ma la situazione non è eccellente». Se fosse ancora vivo, probabilmente Mao Tse tung correggerebbe così una delle sue più celebri massime. Il caos, infatti, regna sovrano, ma lo scenario mondiale non promette nulla di buono. Sui dazi, per esempio, non si capisce dove Donald Trump voglia andare a parare. All'Europa ha concesso in extremis tempo fino al 1° giugno per trovare un'intesa in virtù, sostiene la Casa Bianca, dei «progressi» ottenuti durante i negoziati. Ora, riesce difficile ravvisare qualche passettino in avanti tenuto conto della reazione di Bruxelles, affidata al presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker: «Rinnovo l'appello agli Usa a rendere permanente l'esenzione dai dazi all'Unione europea senza condizioni».

L'Europa sembra insomma irrigidirsi sulle posizioni già espresse quasi un paio di mesi fa, al momento dell'annuncio delle tariffe punitive su acciaio e alluminio, e si prepara a rendere operative le misure di ritorsione su alcuni prodotti simbolo del made in Usa, a cominciare dai jeans Levi's e dalle moto Harley Davidson. Se il Vecchio continente è un fronte caldo, quello cinese è incandescente. Dopo aver messo a punto un elenco di 128 prodotti americani assoggettati ai dazi (valore, 50 miliardi di dollari) in risposta al giro di vite a stelle e strisce sulle importazioni del Dragone, Pechino si prepara ad accogliere, oggi e domani, una robusta delegazione statunitense composta, tra gli altri, dal segretario al Tesoro, Steven Mnuchin e da quello al Commercio, Wilbur Ross, dai consiglieri economici della Casa Bianca, Peter Navarro e Larry Kudlow. Per l'esito del faccia a faccia, non appare di buon auspicio la decisione presa ieri dalla People's Bank of China di tagliare il livello di riferimento sul dollaro a 6,3670 yuan, oltre la media di 6,3610 stimata dagli analisti. In pratica, una vera e propria svalutazione della moneta nazionale che rischia di mandare su tutte le furie Trump. Proprio a metà aprile, il tycoon aveva infatti accusato l'ex Celeste Impero di manipolare la propria valuta con l'intento di esercitare pressioni sul fronte commerciale. Gelida la replica di Pechino: «Trump dà informazioni un po' caotiche».

Il caos, appunto. Il fenomeno che rischia di condizionare anche le scelte della Federal Reserve, alle prese con un complicato processo di normalizzazione della politica monetaria. Se l'inflazione resta la stella polare che orienta la banca guidata da Jerome Powell, variabili come una guerra commerciale globale non possono essere trascurate. Ieri la Fed ha lasciato invariati i tassi all'1,50-1,75%, confermando le attese che collocano il secondo giro di vite dell'anno in giugno, quando verranno diffuse le nuove previsioni e la media di strette previste nel 2018. Le prossime mosse saranno «graduali», ha confermato il comunicato della Fed, ma è appunto su quante saranno - solo altre due? Tre? - che gli interrogativi restano. Con l'inflazione che «si è mossa vicina» alla soglia target del 2% (un cambio di linguaggio rispetto a marzo), un Pil cresciuto nel primo trimestre di un robusto 2,3% e con un mercato del lavoro «in continuo rafforzamento», la banca centrale Usa sembra avere le mani più libere per agire. Lo statement include però anche «gli sviluppi internazionali» nella lista dei fattori destinati a condizionare le prossime decisioni. La locuzione è generica, ma contiene senz'altro i dazi. Il problema è che, finora, l'istituto di Washington non è riuscito a calcolare con buona approssimazione in che misura impatteranno sul ciclo economico.

È possibile che il quadro sia più chiaro il mese prossimo, decisivo per capire se per la Fed sarà l'anno del falco o della colomba.

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