Economia

Nuovi dazi cinesi, Trump accusa la Fed

Tassa da 75 miliardi sull'import Usa. The Donald: «Il nemico è Powell o Xi?»

Nuovi dazi cinesi, Trump accusa la Fed

È la Cina il miglior alleato di Donald Trump nella sua indefessa crociata contro il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell. Ieri Pechino è piombata giù dalle montagne di Jackson Hole, dove è in corso l'annuale simposio tra i banchieri centrali, come una valanga carica di nuovi dazi sulle merci statunitensi.

Tariffe punitive alzate dal 5 al 10%, per un controvalore di 75 miliardi di dollari, sono destinate a scattare in due tranche, il primo settembre e il 15 dicembre prossimi.

Nel mirino anche le automobili a stelle e strisce, la cui tassazione salirà dal 15 al 25% a partire da metà dicembre. Poi il petrolio Usa, anche se in questo caso con dazio al 5%. Una risposta a tutto campo del Dragone all'ultima ritorsione americana (altri dazi del 10% sui prodotti cinesi) che è la plastica rappresentazione dell'inasprimento della guerra commerciale fra le due super-potenze. E questa, di certo, non sarà l'ultima rappresaglia.

Nell'immancabile tweet, Trump ha infatti subito replicato annunciando nuove misure contro l'ex Impero celeste e intimando alle corporation Usa di cominciare a preparare i bagagli per «cercare un'alternativa alla Cina» o, meglio ancora, per organizzare il rimpatrio della produzione. In tarda serata, era ancora in corso un incontro fra il presidente Usa e il suo staff di esperti commerciali per studiare come controbattere alla mossa di Pechino.

Fin da subito i toni duri di Trump sono stati sufficienti per far correre brividi freddi lungo la schiena a Wall Street, angosciata dall'idea di un back-shoring di massa (400 punti persi dal Dow Jones pochi minuti dopo il cinguettio trumpiano, -2% a un'ora dalla chiusura), e per piegare i listini europei (-1,65% Milano, giù lo Stoxx600 dello 0,8%). E mentre gli indici scendevano, lo yuan toccava il minimo da 11 anni e mezzo contro il dollaro a quota 7,13, quasi sicuramente per effetto di un intervento della banca centrale cinese.

L'irrigidimento del tycoon non sembra però solo legato all'affondo tariffario cinese. Lo si capisce dal successivo tweet al vetriolo riservato a Powell. La cui colpa, agli occhi dell'inquilino della Casa Bianca, è quella di non aver annunciato ieri una bella sforbiciata dei tassi. Già la premessa di The Donald è una domanda retorica: «Chi è il nostro più grande nemico, Powell o Xi (il presidente cinese, ndr)? È incredibile come i membri della banca centrale possano parlare senza sapere o chiedere quello che sto facendo. Come al solito, la Fed non fa nulla. Abbiamo un dollaro molto forte e una Fed molto debole».

Per evitare la furia presidenziale, al leader di Eccles Building non è insomma bastato riscrivere in tutta fretta buona parte dello speech, preparato in precedenza, alla luce degli ultimi sviluppi tariffari.

Discorso in cui, fin dall'inizio, si sottolineano i «rischi significativi» che sono intervenuti nelle tre settimane successive all'ultima riunione dell'istituto di Washington: nuovi dazi; ulteriori conferme di rallentamento globale, in particolare in Cina e Germania; caduta dei rendimenti dei bond a lungo termine. Per Powell, le incertezze commerciali rappresentano «una nuova sfida per la politica monetaria». Ovvero, alla fine, finiscono per condizionare le scelte sui tassi. Così, la Fed è pronta ad «agire in modo appropriato per sostenere l'espansione economica», anche se l'apertura a un alleggerimento del costo del denaro è data soprattutto dall'assenza nel suo discorso di qualsiasi riferimento a quell'«aggiustamento di metà ciclo» con cui era stata depotenziata la riduzione dei tassi decisa lo scorso luglio.

Una mancanza che le Borse, tutte positive prima dell'intemerata di Trump, avevano subito interpretato come una chiara indicazione che i tassi saranno tagliati già in settembre di almeno un quarto di punto. Gli interventi di Trump hanno poi sparigliato le carte.

Da lunedì prossimo, per i mercati si profila un'altra settimana di passione.

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