Economia

Lo spread torna a salire ma è quello dei prezzi che preoccupa l'Italia

Si allarga la forbice d'inflazione con il resto dell'eurozona, con ricadute sui titoli pubblici

Lo spread torna a salire ma è quello dei prezzi che preoccupa l'Italia

Quasi per un riflesso condizionato, l'occhio cade sempre lì, sul famigerato spread tra Btp e Bund. Mai stata una delizia, il differenziale di rendimento tra i nostri titoli decennali e quelli tedeschi è la croce che periodicamente dobbiamo sopportare. In questi giorni è risalito a 170 punti, top da un mese e valore più che doppio rispetto ai 97 con cui si era chiuso il 2015. Insomma, meglio non distrarsi troppo. Anche perchè c'è un altro spread, molto più negletto ma altrettanto maligno, che non bisogna perdere di vista: quello sull'inflazione.

L'Istat ha certificato mercoledì scorso che l'Italia ha chiuso il 2016 in deflazione, a causa di prezzi scesi dello 0,1%. Ciò ha provocato un allargamento, finora mai visto, della forbice col resto dell'eurozona dove l'inflazione media è stata pari all'1,1%. Ma lo scarto di 1,2 punti percentuali rispetto a Eurolandia schizza a quota 1,8 se il confronto viene circoscritto alla Germania (1,7% il tasso d'inflazione). Ed è proprio da quest'ultimo disallineamento che potrebbero derivare grossi problemi se il nostro Paese non riuscirà ad agganciare il treno della reflazione.

Da tempo, i tedeschi lamentano i danni al risparmio privato, ai margini delle banche e agli utili di assicurazioni e fondi pensione provocati dalla politica monetaria ultra-distensiva della Bce. Spalleggiato da una nutrita schiera di politici (su tutti, il ministro-falco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble), industriali e banchieri, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha chiesto a più riprese a Mario Draghi di cambiare rotta. Finora, l'ex governatore di Bankitalia ha tenuto duro. E, forte della maggioranza di colombe presenti nel board, ha strappato in dicembre un'estensione fino alla fine di quest'anno del quantitative easing, seppure in una versione resa meno aggressiva dalla diminuzione dell'entità degli acquisti mensili (dagli attuali 80 a 60 miliardi, a partire da aprile). Per l'Italia è una sorta di polizza sulla vita. Con il difetto che non è garantita al 100%. Il pressing della Germania, sollecitato dalla rapida risalita dell'inflazione (in novembre era ancora allo 0,8%) e dall'appuntamento settembrino con le urne, si farà infatti nelle prossime settimane ancora più intenso.

C'è solo da sperare che la linea Maginot di Draghi regga. Se dovesse cadere, sarebbero guai. Il Paese rischierebbe di finire nel mirino dei mercati per almeno due motivi: l'elevato livello d'indebitamento e le scarse prospettive di crescita. Sempre che non si complichi qualche altro dossier caldo (banche e riforma elettorale). Significherebbe pagare tassi d'interesse più alti, e resi ancora più pesanti dalla deflazione. Del resto, anche negli ultimi anni, il Tesoro ha visto diluito l'effetto Bce proprio a causa dell'assenza di pressioni inflazionistiche. Un esempio? Nel 2011, già nel pieno della crisi del debito sovrano, i Btp decennali rendevano il 4,75, ma a fronte di un'inflazione al 2,64% il rendimento reale era del 2,11%. Nel 2014, il tasso è sceso al 3,10% con prezzi al consumo allo 0,5% che hanno portato il rendimento reale al 2,60%. In sostanza, un onere maggiore per le casse dello Stato rispetto a tre anni prima.

La situazione è già più complicata, e lo dimostra il fatto che i rendimenti del decennale sfiorano il 2% proprio in considerazione del fatto che i mercati non ragionano più sulle aspettative d'inflazione. La risalita dei prezzi, complice il rincaro del petrolio e la politica economica che Trump intende persguire, è ormai un dato di fatto. Tranne in Italia.

Dove l'inflazione non c'è, ma ne paghiamo comunque il dazio.

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