Economia

Usa e Cina sbandano, giù le Borse

L'America crea appena 20mila posti in febbraio. Crolla l'export del Dragone: -20%

Usa e Cina sbandano, giù le Borse

In febbraio la macchina delle assunzioni si è praticamente inceppata negli Stati Uniti. La creazione di appena 20mila posti di lavoro è, infatti, un impercettibile sussulto statistico che allunga nuove ombre sulla solidità dell'economia americana. Naturalmente, c'è chi come Larry Kudlow, consigliere economico di una Casa Bianca che ha scommesso su un Pil tirato a lucido nel 2019 (+3% la stima), per giustificare la sincope del mercato del lavoro ha tirato subito fuori l'alibi prét-à-porter del più lungo shutdown nella storia federale. Ma il tutto suona un po' strano: possibile che le attese di 173mila new jobs da parte degli analisti non tenessero conto degli effetti della semi-paralisi delle attività federali? È una domanda che anche i mercati si devono essere posti. E a cui Wall Street ha dato subito una risposta sotto forma di un calo di 100 punti dell'indice Dow Jones, confermati a ridosso della chiusura (-0,5% a un'ora dalla fine seduta), mentre le Borse europee hanno oscillato tra il -0,5% di Francoforte e il -1% di Milano.

Lo stallo del mercato del lavoro Usa è del resto l'ennesimo indizio, fra i tanti, del progressivo rallentamento dell'economia globale. Giunto a un giorno di distanza dall'allarme-crescita lanciato dalla Bce, costretta a rimandare sine die il rialzo dei tassi e a tamponare le falle che si aprono nell'eurozona mettendo nelle mani delle banche, attraverso le aste Tltro, centinaia di miliardi destinati a famiglie e imprese; e a poche ore dall'annuncio della picchiata subita dalle esportazioni cinesi il mese scorso (-20% su base annua). La guerra dei dazi sta insomma presentando il conto a Pechino, che ha già messo in conto la possibilità di una crescita anemica quest'anno (6%). Washington spera di vincere la disputa per eliminare i danni causati dai furto delle proprietà intellettuali e per ridurre lo squilibrio sempre più marcato dei deficit gemelli (disavanzo delle partite correnti oltre il 2,5% del Pil e rosso federale attorno al 4% del Pil). Donald Trump, però, vuole un dollaro debole, quando invece un rafforzamento della valuta aiuterebbe a far convergere sugli States quei capitali stranieri utili a ridurre lo sbilanciamento sull'estero. Ed è convinto che in caso di intesa tutti i problemi saranno risolti. Il suo tweet di ieri ne è una prova: «L'azionario volerà dopo l'accordo con la Cina». Ieri, tuttavia, Wall Street non gli ha dato retta.

Se sarà confermata in marzo, l'asfittica creazione di posti di lavoro potrebbe mettere la Federal Reserve di fronte a un bel problema. Già ieri, subito dopo la diffusione dei dati sull'occupazione, i future sui Fed Fund esprimevano un 20% di chance, contro il 14% di giovedì, di un taglio dei tassi entro la fine dell'anno. Il board guidato da Jerome Powell ha già formalmente messo in pausa il processo di normalizzazione della politica monetaria, anche se sulla questione della riduzione del bilancio resta qualche interrogativo. Finora, però, nessuno si è ancora spinto a ipotizzare una riduzione del costo del denaro. Per Eccles Building significherebbe sconfessare le più recenti linee-guida, quelle che nel 2018 hanno portato a ben quattro strette sui tassi. Ma l'allentamento farebbe felice The Donald, convinto che questa sia la strada per dare un boost all'economia e infiacchire il il biglietto verde. C'è però un fenomeno che potrebbe frenare la Fed, ed è quello della crescita dei salari. Il mese scorso la retribuzione oraria è aumentata in media di 11 centesimi di dollaro su mese e del 3,4% su anno, con un'inflazione prossima al 2%.

Un probabile maggiore impulso ai consumi, ma anche il possibile focolaio di un surriscaldamento dei prezzi.

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