Economia

Yellen: «A giugno tassi ancora fermi»

Per la presidente della Fed rischi per l'economia da un rialzo troppo ravvicinato. Ma una stretta a luglio non è esclusa

Rodolfo Parietti

«Siamo fortunati ad avere Janet Yellen alla Fed». Dal palco di Harvard, arriva da Ben Bernanke l'endorsement incondizionato verso chi lo ha sostituito alla Federal Reserve. Con il compito, tutt'altro che facile, di schiodare i tassi da quota zero e di mettere fine al periodo dell'emergenza. Lei ci sta provando. Ma dopo il piccolo (e storico) ritocco in dicembre, la rotta della politica monetaria Usa non è più cambiata. E così, per tutto il pomeriggio di ieri, i mercati si sono bloccati in attesa che la presidente di Eccles Building facesse chiarezza sulle prossime mosse della banca centrale. Rialzo in giugno? A luglio? La Yellen l'ha presa un po' alla larga: l'economia americana è alle prese con una «ripresa lenta», ma ha compiuto molti progressi soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro, dove il tasso di disoccupazione è passato «da un picco del 10% al 5% attuale» anche se non c'è stato un aumento «significativo dei salari». Quindi? Meglio non sbilanciarsi: «I tassi di interesse devono salire in modo graduale e con cautela»: se l'economia continuerà a migliorare «un aumento nei prossimi mesi potrebbe essere appropriato». Parole che sembrano escludere una stretta ravvicinata (cioè in giugno) per evitare il rischio di «innescare una crisi» dell'economia, ma che tengono viva l'ipotesi di un intervento in luglio.

Probabilmente la Fed conta su un colpo di reni nel secondo trimestre, quando il Pil dovrebbe espandersi del 2,5% in base alle stime degli analisti, per non essere costretta a correggere la propria previsione di crescita per l'intero anno del 2,2%. Washington ha però un problema: i dati sull'andamento del periodo aprile-giugno saranno diffusi dal dipartimento al Commercio soltanto dopo il Fomc di luglio. Se vorrà agire prima della pausa di agosto, la banca centrale dovrà quindi farlo con le carte ancora coperte sullo stato di salute dell'economia Usa e sulla scorta dell'asfittica crescita del primo quarter, rivista ieri dal preliminare 0,5 allo 0,8%. Una lieve correzione (comunque inferiore alle attese di chi puntava su un +1%) che non cambia il quadro complessivo, sostanzialmente deludente se paragonato al passo ben più svelto dell'ultima parte del 2015 (+1,4%).

La Casa Bianca, nel commentare ieri la modesta revisione al rialzo, lamentava «il rallentamento della domanda globale» che continua a essere «un freno per la crescita del Pil reale». Le esportazioni sono infatti calate del 2%, e la situazione non è destinata a migliorare. Anzi: una stretta piazzata in estate avrebbe come effetto immediato un ulteriore rafforzamento del dollaro, col risultato di penalizzare ulteriormente il made in Usa, anche se un eventuale calo del deficit commerciale inciderebbe in modo positivo sul Pil.

C'è poi un altro aspetto da non sottovalutare: il continuo restringersi delle spese per consumi, che generano due terzi dell'output. Fra gennaio e marzo sono aumentate dell'1,9%, contro il +2% del precedente trimestre, il +3% del terzo trimestre 2015 e il +3,6% del secondo. Le aziende, inoltre, sono ritornate all'utile a fine marzo (+1,9% dopo la contrazione dell'8,1% del quarto trimestre 2015), ma sono ancora restie a spingere sul pedale degli investimenti (-6,2%).

Insomma: l'America non sembra ancora pronta a reggere un rialzo dei tassi.

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