Cronaca locale

«El bosin» Barbapedanna

Sarà l'atmosfera natalizia con i suoi richiami canori e musicali, o forse la folla in cerca di regali e di curiosità a far riemergere il ricordo di personaggi milanesi rimasti nella storia della città. Erano figure che, per l'appunto, vivevano di musica, di proclami e di pubblico disposto ad ascoltarli. Il tempo ha inevitabilmente sbiadito la loro memoria, confinandoli tra realtà e fantasia, come in una specie di limbo dei ricordi. Ma nei primi anni del secolo scorso (che sembra già così lontano!) questi singolari individui furono motivo di quotidiana attrazione nelle strade e nelle piazze di una Milano che stava trasformandosi, da insieme di quartieri, in metropoli omogenea. Uno di questi stravaganti protagonisti che troverà posto nella leggenda fu sicuramente Barbapedanna, da alcuni ritenuto erroneamente frutto della immaginazione popolare. Infatti Barbapedanna esistette realmente. Il suo vero nome era Enrico Molaschi e sbarcava il lunario facendo il cantastorie, «el bosin». Di bassa statura, rotondetto, vestito di poveri panni sempre scuri e di un cilindro con infilate nel nastro un paio di penne di fagiano, Molaschi viveva in un tugurio nel vicolo Bindelino, in zona Porta Vittoria. Simpatico e bonaccione, era solito frequentare trattorie e osterie per strimpellare le sue storie a qualche allegra brigata in cambio di un pasto o di un bicchiere di vino. La sua «sigla», come la chiameremmo oggi, era il motivo «Barbapedanna el gh'aveva un gillé, senza el denanz e cont minga el dedrée, con i oggieu longh ona spanna, l'era el gillé del Barbapedanna». Di lui non si sa molto, ma certamente partecipò alla guerra italo-turca tanto che, ai tempi in cui Gea della Garisenda cantava «Tripoli bel suol d'amore» il Molaschi, visto che ancora non esisteva il «politicamente corretto», metteva in strofa le sue esperienze militari: «Barbapedanna el gh'aveva on scioppett, per sparà contra i soldà de Maomett, (...) e da bersaglier che l'era, el sparava volentera, el sparava el scippettin contra i brutt di beduin...». Un mattino lo trovarono gelido e immobile nella sua stanza disadorna al Bindelino, con accanto la sua fedele compagna: la chitarra.
Un altro personaggio curioso, oltre che spassoso, fu l'«astronomo» Paneron, attivo negli anni Venti e Trenta. Felice Paneroni, nato nella Bergamasca, attirava le folle nelle piazze di Milano con le sue strampalate teorie secondo le quali era il sole a girare attorno alla terra che a sua volta, egli affermava, era piatta e non sferica. Nello spiegare al popolo questa sua scienza che galoppava a ritroso nel tempo, fra la perplessità dei cittadini e lo scherno dei goliardi che organizzarono anche un banchetto in suo onore, si accalorava fino a strapazzare gli astanti con il vivace linguaggio ormai tipico delle sue lezioni di astrofisica (si fa per dire...): «O bestie che non siete altro! La volete capire che la terra non gira? E non può essere rotonda, perché altrimenti ci sarebbe gente che si troverebbe con la testa in giù!». Poi, prendendo fiato, si assestava i pantaloni tirando su la rozza corda che fungeva da cinghia. Di tanto in tanto le guardie civiche lo conducevano in questura o lo internavano in manicomio. Essendo però ritenuto innocuo, dopo qualche giorno era di nuovo fuori, preferibilmente in piazza Fontana, infervorato più che mai nel dare dell'asino a Galileo o a maledire la teoria copernicana. Alla fine degli anni Quaranta, in una Milano ormai in via di trasformazione, con la guerra appena lasciata alle spalle, forse avvilito dal fatto che combattere contro l'ignoranza di chi credeva nella terra rotonda e ruotante attorno al sole era diventata una fatica inutile, si ritirò nel paesello natìo. Morì dalle parti di Rudiano, all'inizio degli anni Cinquanta, e fu sepolto nella nuda terra.

Che fosse ferma o in movimento, a quel punto aveva ormai poca importanza.

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