Politica

Guerra fredda in Sudamerica La rivolta dei populisti anti Usa

Non è mai stata solamente una ripicca personale. Adesso è chiaro a tutti: è una crisi continentale. Nel momento in cui il presidente della povera Bolivia espelle l'ambasciatore Usa si poteva ancora pensare a un urlo al di sopra del rigo. Ma quando la medesima decisione è presa dal Venezuela, con immediata risposta paritetica di Washington e raccoglie la solidarietà di Paesi importanti e certo non «della banda» come l'Argentina e il Cile, allora è chiaro che ci troviamo di fronte a un nuovo capitolo di uno scontro fra l'America yankee e l'America Latina che potenzialmente esiste dal primo giorno della decolonizzazione più o meno contemporanea della Rivoluzione Francese. Perché dietro alle ripicche consentite e quasi imposte dal protocollo diplomatico (tu cacci il mio ambasciatore, io caccio il tuo) le motivazioni sono o comunque devono essere di pari gravità. Quella avanzata da Evo Morales è fra le più gravi a disposizione: complicità di Washington in una congiura contro le istituzioni boliviane. La risposta deve essere ed è di pari livello: complicità di alti funzionari venezuelani con i guerriglieri della Farc in Colombia.
L'ingresso in lizza di Chávez segnala però un rilancio al di sopra del necessario, perché non concerne più soltanto la persona del rappresentante diplomatico Usa a Caracas bensì il suo ruolo di ambasciatore chiunque lo ricopra. Chávez non chiede di sostituire il capo missione: ha detto che acconsentirà a che egli venga sostituito solo quando «negli Stati Uniti ci sarà un nuovo governo che rispetti l'America Latina». È, in sostanza, come se avesse espulso George Bush da un continente. E infatti ha specificato che le relazioni diplomatiche non riprenderanno fino a che non ci sarà il cambio della guardia alla Casa Bianca. E poi si è lanciato in una ulteriore fase della escalation, contrassegnata dal turpiloquio, che si estende dal quasi vernacolo «Yanquis de mierda» all'invito «Vayanse al carajo», non più decentemente traducibile se non attraverso la scorciatoia di un riferimento allo slogan preferito di Beppe Grillo; con una evidente differenza anatomica, però compensata dall'ingiunzione reiterata di andarci «cien veces», cento volte.
A Chávez, tuttavia, non è la prima volta che sfuggono espressioni tanto colorite e non è quindi nel suo lessico che si può inserire il termometro che dica la gravità della crisi. È già più significativo il riferimento, del tutto gratuito, agli «avioncitos rusos», «aeroplanini», un vezzeggiativo affettuoso più che un diminutivo. Ma poi Chávez insiste: «Y Cuando llegue la flota rusa, que viene para aca, se van a volver locos», insomma le navi da guerra di Putin li «faranno diventare matti»; gli americani, naturalmente, quelli che hanno appena riattivato la quarta squadra navale, in naftalina da decenni, per «vigilare la regione». Il rapporto di forza sarebbe schiacciante in favore degli Usa, ma è chiaro che i russi, se proprio arriveranno, sarà solo per «mostrare la bandiera».
Il linguaggio di sfida di Chávez, pur scontato in buona parte per chi conosce le sue abitudini oratorie, è tuttavia senza precedenti. È come se i toni succeduti a uno scontro militare in un pezzo di terra geograficamente così lontano come il Caucaso si stia propagando nel linguaggio dei governi un po' ovunque, col solo risultato di aggravare i rischi e soprattutto di rendere concreta e magari urgente la prospettiva di un confronto fra Stati Uniti e Russia nello stile della Guerra Fredda e oggettivamente del tutto anacronistico almeno fino a ieri.
Una deriva che rischia di trascinare anche i candidati alla Casa Bianca: John McCain e, ancor più, Sarah Palin si sono già spinti un po' troppo avanti su questa strada (però Bush no ed egli è ancora il presidente). È ancora più rivelatore che, ben lontano da certi toni della polemica, Chávez e Morales stiano riuscendo, stavolta, a ricompattare quasi interamente il Sud America su una linea anti Usa. Può non avere sorpreso del tutto l'iniziativa dell'Argentina, la dichiarazione di solidarietà e «forte appoggio» con la Bolivia espressa alla Casa Rosada da Cristina Kirchner e ribadita da espressioni alquanto dure da parte sua e del marito, il presidente cui lei è succeduta. Sorprendente davvero è invece la solidarietà che, su iniziativa di Buenos Aires, anche due governi di sinistra moderata come quelli del Brasile e del Cile abbiano in pratica sottoscritto il documento argentino e il suo giudizio politico. Che è inasprito da una vertenza bilaterale di cui si sarebbe potuto fare a meno: la storia del finanziamento di 800mila dollari del Venezuela alla campagna elettorale della Kirchner. Un simile favore a un «governo amico» non è certo senza precedenti, ma invece di farne una questione politica l'America sembra aver scelto la strada dell'incriminazione giudiziaria.

Un fuocherello in più in quello che minaccia di diventare un incendio scomodo e pericoloso per tutti.

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